Autrice, illustratrice ed editore: l’intervista a Francesca di Martino indaga le collane della casa editrice e il rapporto con il mondo di oggi
Chi ha detto che un libro debba essere bello solo dentro? Edizioni Piuma crede nella qualità delle storie ma anche nella bellezza dei libri: ce lo racconta l’editrice in questa intervista
Chi ha detto che un libro debba essere bello solo dentro? Edizioni Piuma crede nella qualità delle storie ma anche nella bellezza dei libri, in una forma che può diventare anche un’opera d’arte in tutti i sensi. Al resto ci pensa la fantasia umana, quella in grado di rappresentare gli scenari scomodi della letteratura distopica.
A consolidare questi concetti c’è l’intervista con l’editrice Francesca Di Martino, la cui vita si snoda tra arte, libri e innovazione. Francesca percepisce la necessità di andare oltre una «società di consumi, fluida e superficiale» e vede nei libri quel pasto necessario per «alimentare il lupo buono», per citare Cherakee. Nessuna resa al mercato, dunque, bisogna anzi «scavare e trovare buone letture da pubblicare».
Da autrice televisiva e illustratrice a editore: com’è cambiato il punto di vista? C’è un legame autobiografico fra l’editrice e i suoi libri?
Iniziamo proprio con una bella domanda che mi consente di raccontare un po’ di me. In questi anni ho accumulato diverse esperienze lavorative in diversi campi, ho lavorato come autore per la televisione, illustratrice, sviluppatrice di app per bambini ed editrice. All’apparenza possono sembrare mondi lontani ed eterogenei, ma ciò che ho accumulato è stato prezioso per la mia costante ricerca di storie da raccontare. Passare dalla scrittura televisiva al disegno e progettazione, mi ha arricchito profondamente.
Il senso di un racconto si misura sempre con la narrazione calata nel tempo in cui vive. Allevare e far crescere la capacità di saltare da un media all’altro per me significa lavorare bene e credo che la società di oggi richieda dinamismo e fluidità per adattarsi ai cambiamenti. Non c’è alcun legame autobiografico fra essere editore e i libri che pubblico, c’è solo la necessità di rispondere onestamente alle scelte che mi definiscono.
La vostra collana I Codici: come nasce e perché avete scelto questo nome?
La collana I Codici è dedicata ai mondi alternativi per giovani lettori. L’avevo in mente già da anni e ora finalmente è stata pubblicata con il Il disegnatore di nuvole di Giorgia Simoncelli proprio durante un anno strano che, per antonomasia, sembra essere davvero distopico. Il secondo appuntamento sarà quello con Dastan verso il mare di Laura Scaramozzino. Ci sono poi altre novità per il futuro che non svelo subito.
Sono una grande appassionata dei classici della letteratura e delle serie sci-fi, così ho iniziato a pensare quanto potesse essere interessante fare arrivare prima romanzi di avventura che spaziassero dallo steampunk al distopico, e tutti quei mondi alternativi in cui cercare risposte agli interrogativi e per riflettere sulla realtà che viviamo ogni giorno.
Oggi i consumatori di libri di genere, i collezionisti di gadget delle proprie serie preferite e i gamer, sono target che spendono per le proprie passioni. Quindi ho immaginato una linea editoriale che premiasse il genere per i ragazzi tra gli undici e i quattordici anni con delle copertine-poster da collezionare. L’illustratore ideale si è rivelato il bravissimo Paolo d’Altan. Con grande professionalità e creatività, Paolo ha sempre letto ogni storia e si è confrontato con gli autori, e il risultato è stato davvero centrato. Gli autori sono stati cercati insieme all’editor Virginia Villa, e sono arrivati in modo naturale con le loro storie, cosa che mi fa ben sperare nel continuare con questo filone. Per me I Codici è una collana non solo di storie scritte bene, ma anche di libri belli. Un ragazzino deve essere attratto dal libro e poterlo scegliere di propria iniziativa, e non per seguire ciò che va di moda.
Questo target si porta dietro una criticità notevole, e cioè il costante abbandono della lettura di libri, come sappiamo. Ma di fatto si tratta di un pubblico che continua ad incuriosirsi alle storie, solo che lo fa in modo diverso, muovendosi altrove (tra game e social). Sono i follower degli youtuber, che frequentano i social e vanno matti per Fortnite, scrivono e leggono su Wattpad e sono anche molto diversi dai quindicenni che li hanno preceduti. I più giovani della generazione Z vivono ancora a metà tra l’infanzia che stanno abbandonando e l’adolescenza che li sta investendo. Interpretare il presente e il futuro prossimo con mondi alternativi o paralleli è forse una buona chiave di lettura per portare nuove riflessioni per questa generazione. Il nome della collana deriva proprio dall’idea di trovare e sperimentare chiavi di accesso che possano aprire nuove connessioni tra gli adolescenti e l’editoria.
Le illustrazioni hanno una grande valenza e puntano soprattutto a un pubblico giovane. Come mai questa scelta? Sarebbe possibile immaginare lo stesso approccio anche per la narrativa in generale?
La nostra società, come sappiamo, si nutre continuamente d’immagini di ogni tipo, impastando superficialmente le informazione veicolate da esse. Ce ne sono però di brutte, violente e di pessimo gusto. Questo tsunami iconografico nel flusso del web stordisce i nostri ragazzi, spesso privi, a mio avviso, degli strumenti giusti per distinguere le opere complesse da quelle che non dicono nulla. Saper analizzare un’immagine è indice di un pensiero critico e questo è assolutamente necessario.
Il tentativo di produrre buone storie e belle immagini prima di tutto mi fa sentire meglio ogni mattina, e poi, nel mio piccolo, la vivo come una necessità. Quando un bambino ha per le mani un buon libro, penso abbia uno strumento utile per imparare ad amare naturalmente le illustrazioni belle che gli lasciano qualcosa. E poi mi sembra sacrosanto condividere le cose migliori con i nostri figli. Se anche gli adulti si allenassero più spesso a comprendere il senso delle cose che guardano, forse ci sarebbe meno confusione in giro, più lettori attenti e idee migliori da fare circolare. Insomma, il mio sogno.

I libri sono sempre pedagogici, anche quando non vogliono esserlo. Ma un lettore adolescente è sicuramente un terreno più fertile per una sorta di educazione letteraria…
Secondo me un libro diventa pedagogico, anche quando non vuole esserlo, in virtù della sua forza. Se un autore scrive tanto per scrivere qualcosa di pedagogico e basta, penso che difficilmente abbia per le mani una buona storia, di quelle che lasciano un segno per capirci. Ecco che inevitabilmente si entra in un discorso di qualità del libro. Per quanto mi riguarda un romanzo si nutre di forza quando ti porta a pensare facendoti guardare il mondo da un nuovo punto di vista. Cioè un lettore deve credere alla storia e ai suoi personaggi, e se questi elementi devono insegnare qualcosa, devono farlo attraverso un pensiero critico. Tutti i lettori sono terreno fertile, che siano adolescenti o no. Anche perché non bisogna cadere nella convinzione che i romanzi per ragazzi siano meno importanti di quelli per adulti. Una storia deve essere buona, punto.
Il genere distopico sembra essere il prescelto: perché? È forse uno strumento paradossale e più funzionale per comprendere la realtà?
La distopia è un genere antico, già nei secoli scorsi gli autori si sono cimentati nell’invenzione di mondi diversi e distorti nei quali fare a pezzi la realtà per poi ricostruirla. Nel Settecento Voltaire, attraverso il racconto di Micromega, riflette su come mettere in scala realtà e punti di vista diversi. H. G. Wells, Jules Verne e persino Emilio Salgari con Le meraviglie del duemila hanno raccontato di futuri futuribili.
Il distopico, a seconda del periodo storico in cui prende forma, aiuta ad affrontare le proprie domande e a spiegare i fallimenti, quando la società va in tilt con le sue utopie. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la società aveva fallito, era stata incapace di affrontare razionalmente le atrocità accadute. Eppure in quel periodo sono venuti fuori classici assoluti, uno per tutti 1984.
Certo oggi si rischia di abusare di questa etichetta, però la mia idea è quella di riadattare nuove distopie puntando proprio alla prima adolescenza. Chissà cosa accadrà.
La pandemia ha colpito anche il settore editoriale. Come fa una realtà editoriale indipendente a sopravvivere in questo periodo?
Troppo presto poter dare risposte esaustive a questa domanda. È un periodo in cui noi editori ci poniamo un sacco di domande analizzando nuovi scenari. I risultati dicono che i librai indipendenti hanno superato il lockdown meglio delle grandi catene; ci sono quindi segnali buoni all’orizzonte, c’è quindi molto da fare per ridefinire tutta la filiera. Bisogna lavorare dentro le crisi per saper cogliere nuovi stimoli e opportunità per non farsi travolgere. Io, nel mio piccolo, ci sto provando. Non pubblico molti titoli all’anno, proprio per la grande passione e la massima cura ed attenzione che dedico ad ogni singolo progetto, in cui credo fortemente. Penso che la qualità premi sempre.