Nel buio, aveva tenuto gli occhi sbarrati per un’eternità. Sdraiata, ascoltava attenta un silenzio imperfetto. Un lieve russare arrivava attutito dalla stanza accanto ma un lungo strofinio di lenzuola grossolane e coperte ruvide le fece pensare che forse qualcuno non aveva ancora ceduto al sonno. Scricchiolii del legno intervenivano casuali da ogni angolo della casa. Attraverso la finestra logora poteva sentire il vento tra le foglie; il verso di un animale in lontananza si aggiungeva al rumore di una catena trascinata lentamente. La luce della luna calante disegnava linee chiare sulla parete accanto al letto.
Aristea decise che era giunto il momento. Si levò a sedere e rimase immobile per circa un minuto, vigile; poi iniziò ad alzarsi lentamente, molto lentamente, per non produrre alcun rumore in aggiunta a quelli della notte. Suo fratello, che le dormiva accanto, era perfettamente immobile e non dava segno di essersi accorto di nulla. Superato il corridoio scese le scale di legno, evitando i gradini più rumorosi che aveva identificato con cura la mattina precedente. Attraversò la cucina nella semioscurità, facendo attenzione a non urtare sgabelli e utensili. Il profumo di polenta e formaggio era ancora nell’aria.
Raccolse le sue scarpe vicino all’ingresso ma non le indossò: la suola di legno avrebbe fatto troppo rumore. Le posò con cura sulla camicia da notte che teneva alzata con una mano, con l’altra aprì dolcemente la porta. Il lungo cigolio dei vecchi cardini le fece gelare il sangue.
Rimase immobile qualche istante come se il suo silenzio potesse coprire quel rumore. Non successe nulla. Lentamente si rilassò e uscita nella notte si richiuse la porta alle spalle, incurante del secondo lamento metallico. Si diresse velocemente alla latrina, dove aveva nascosto degli abiti avvolti in un ritaglio di stoffa scura legata alle assi del soffitto. Era agosto ma l’aria notturna era frizzante in quel paesino dimenticato da Dio. A Firenze, dove abitava con la sua famiglia, il caldo era così opprimente da non poter chiudere occhio. Papà aveva detto che sarebbero rimasti lì per sfuggire alla calura, ma lei sapeva che quello che lo spaventava davvero erano i tedeschi che aveva visto marciare per le vie del centro.
Aristea camminava di buon passo, inoltrandosi nel bosco verso il punto di ritrovo…
«Che ci fa lei qui?»
Sentì la voce di Nevio provenire dal buio accanto a un tronco. Non si aspettava una calda accoglienza ma in fondo ci aveva sperato.
«Mio fratello non viene. Dorme beato o forse fa solo finta. Ci sono io al suo posto.»
Dall’alto dei suoi nove anni cercava di mostrarsi sicura e disinvolta ma in realtà il cuore le batteva veloce come non mai.
Seguì un attimo di silenzio in cui trattenne il fiato. Poi i ragazzini iniziarono a parlare tutti insieme. La voce di Paolo, il più grande, si levò su tutte: «Io dico che può restare.»
«Cosa? Ma è una mocciosa!»
Paride aveva la stessa età di Aristea, ma si faceva scudo con l’età del fratello maggiore Livio.
«Zitto tu. Ti abbiamo preso nel gruppo solo perché c’è tuo fratello. Lei almeno ha avuto il coraggio di venire fin qui da sola. Io dico che può restare. E comunque per il piano dobbiamo essere in otto.»
Italo e Antonio annuirono, Osiride allargò le braccia in segno di resa. Lui era di Torino e veniva a passare ogni estate in montagna dai nonni. Si era guadagnato la stima dei ragazzini del paese proponendo sempre soluzioni sensate ai loro bisticci.
«Allora è deciso.» Disse Paolo mettendosi a spalle la bisaccia, e questo pose fine a ogni lamentela. Aristea riprese a respirare. La testa le girava leggermente per il senso di euforia che le dava quella piccola, grande vittoria.
Si misero in cammino seguendo la mappa che Paolo aveva tracciato ascoltando di nascosto i discorsi di papà e zia Giulia, che faceva la staffetta per i partigiani.
«Ci vorrebbe una squadra di guastatori» aveva detto lei «nessuno di noi è in grado di entrare nel campo dei crucchi di nascosto, sarebbe un suicidio. Siamo rimasti in pochi. Finché non riceviamo rinforzi, non possiamo rischiare di perdere qualcuno.»
Paolo era sicuro di potercela fare. Suo fratello lavorava alle Officine Meccaniche Reggiane e insegnandogli il mestiere aveva involontariamente fornito le informazioni fondamentali per la riuscita del loro piano: prima del sorgere del sole avrebbero strisciato nel fango e manomesso quanti più mezzi possibile. Due gruppi di quattro ragazzini sarebbero riusciti a passare inosservati. Ora, con il favore della notte, si dirigevano a passo sicuro verso uno degli eserciti più feroci della storia, con la spavalderia e l’incoscienza della loro età.
Aristea teneva il passo senza difficoltà ma quella marcia silenziosa l’annoiava. Più di una volta alzò gli occhi al cielo per cercare qualche stella cadente ritardataria. La notte precedente era rimasta con la mamma a guardare il cielo di San Lorenzo che si riempiva di magia. Aveva espresso sempre lo stesso desiderio, ogni volta che un puntino luminoso lasciava la sua scia. E ora si trovava esattamente dove voleva essere. Si concesse però una distrazione di troppo e mentre stava con il naso all’insù, appoggiò il piede su un sasso più grande del previsto. Perse l’equilibrio e si ritrovò a rotolare sul breve declivio a lato del sentiero.
In un attimo tutti i ragazzini scesero a controllare se si fosse fatta male, anche se alcuni sfoggiavano il sorriso malizioso del “te l’avevo detto”.
«Non è niente, mi sono solo distratta. Credo di essermi graffiata un ginocchio, ma non importa. Proseguiamo.»
«Ssssh!» Osiride fece segno agli altri di stare giù. Chi era rimasto più vicino al sentiero si affrettò a raggiungere gli altri sotto i cespugli alla fine della discesa. Si sentiva in lontananza un rumore sordo ma ritmico e continuo che i loro passi avevano coperto. Fu subito chiaro che si trattava di un gran numero di persone che si avvicinavano. Rimasero nascosti, in attesa. Erano tutti perfettamente immobili, attenti a non produrre nessun suono. I loro respiri affannosi venivano coperti dal fruscio delle foglie, ma dovettero mettersi una mano davanti alla bocca per soffocare lo stupore quando videro passare sul sentiero i primi uomini, in direzione contraria alla loro. Alla luce della luna le divise erano grigie e gli stivali neri, ma le aquile con la svastica non lasciavano dubbi. Marciavano compatti, in silenzio. Tra le prime file i ragazzini sentirono chiaramente qualcuno che parlava in italiano, facendo dei segni con le mani per indicare la strada. Rimasero con il fiato smorzato, i nervi tesi e le gambe molli mentre i tedeschi sfilavano a pochi passi da loro. Erano armati ed erano in tanti.
Passate le retrovie, attesero che il rumore iniziasse ad affievolirsi per trovare il coraggio di guardarsi l’un l’altro, tornando a respirare a pieni polmoni.
«Dobbiamo seguirli» disse Paolo «Non ha senso continuare a cercare il loro campo. Avete visto quanti erano? Non troveremo più nulla laggiù.»
«Hai ragione, andiamo.» La voce di Osiride non era ancora stabile, ma lo era la sua decisione. Tutti gli altri li seguirono senza dire nulla, mentre cercavano il ritmo regolare del loro respiro e dei loro pensieri.
Si tennero a distanza, a tratti utilizzando il sentiero ma solo dove non era possibile passare nel bosco adiacente. Scambiavano tra loro solo poche parole, mantenendosi in contatto visivo. Si spostavano in piccoli gruppi, sperando di non venire scoperti. Stavano percorrendo a ritroso la strada fatta quella notte.
Fu Antonio a tradurre in parole i pensieri di tutti: “Stiamo tornando a Sant’Anna. Dobbiamo avvisare gli uomini in paese.»
Sapevano che i tedeschi rastrellavano i maschi adulti, lasciando solo donne e bambini.
«Andiamo io e Paride.» disse Aristea «Siamo i più piccoli. Anche se ci trovano non ci fanno niente. Così avremo due famiglie che potranno aiutarci ad avvisare altri velocemente.»
Paride sembrava sgomento, ma non osò rifiutarsi.
Iniziarono a correre nei boschi che conoscevano così bene, facendo un giro largo intorno alle divisioni tedesche. La stanchezza era compensata dall’adrenalina e dalla paura. Non si fermarono neanche quando si divisero per raggiungere ognuno la propria casa e poi quella dei vicini e dei vicini dei loro vicini. Gli altri sei rimasero nascosti neal bosco e videro molti uomini in abiti civili allontanarsi correndo dal centro abitato: Aristea e Paride ce l’avevano fatta!
Rimasero appostati cercando di capire che cosa stesse succedendo.
Sentirono grida di donna, pianti di bambini; le urla in tedesco arrivavano nitide ma incomprensibili. Videro famiglie spinte per le strade: li stavano radunando, forse per controllarli. Poi le raffiche di mitra gelarono loro il sangue. Distanziate e inesorabili, senza tregua. Vi furono altri spari isolati e scoppi da diversi punti del paese per alcune ore. Il silenzio che ne seguì era colmo di orrore.
Aristea aveva il fiatone e la gola in fiamme quando incontrò Paride davanti al capitello.
«Abbiamo fatto il possibile, dobbiamo nasconderci.»
Un tedesco uscì in quel momento dal cortile della casa di fronte, subito seguito da altri. Appena li vide si mise a sbraitare indicandoli. In un attimo tutta la stanchezza si sciolse nelle loro ginocchia e non furono più in grado di muoversi. Qualcuno si avvicinò velocemente e li spinse in un fienile impugnando una grossa arma. Nella penombra si accorsero che era molto giovane, troppo per quella divisa; fece loro segno di rimanere in silenzio, con il dito davanti alle labbra. Una raffica di pallottole colpì la parete in alto, sopra le loro teste, sollevando una nuvola di polvere e schegge. Poi il ragazzo uscì senza voltarsi; Aristea e Paride rimasero abbracciati ad ascoltare le ultime truppe che lasciavano il paese. Li trovarono così molte ore dopo, incolumi e stretti uno all’altra.