Nel film per i dieci anni dalla scomparsa dell’artista di emozionante c’è solo la “voce più bella della sua generazione”.
Diretto da Kasi Lemmons e interpretato da una somigliante Naomi Ackie, il film proprio come ogni biopic sugli artisti dovrebbe fare, ripercorre i momenti salienti della vita della cantante Whitney Houston, che fu soprannominata “The Voice” come Frank Sinatra.

I successi di Whitney Huston, la “più grande voce della sua generazione”
L’esistenza della cantante ha già in sé tutti gli elementi per essere una buona trama: una famiglia d’origine talentuosa (la madre era Cissy Huston e la cugina Dionne Warwick), una madrina importante come Ella Fitzgerald e l’abitudine a frequentare i palcoscenici fin da piccola. Impossibile che un talento come il suo non trovasse sbocchi.
L’occasione, infatti, arriva presto per la giovane Whitney, che firma “per sempre e in tutto l’universo” con l’agente Clive Davis (che è anche produttore del film), interpretato da Stanley Tucci. Da lì l’ascesa è vertiginosa e “la voce più bella della sua generazione” arriva a vendere più di Elvis e dei Beatles, e a essere la cantante più premiata della storia.
La caduta nel baratro, l’altro lato del successo
Eppure il successo non la esenta da una vita infelice: il padre, che le fa da manager, approfitta senza remore del suo patrimonio e arriva a farle causa per 100 milioni di dollari, il matrimonio con Bobby Brown è un fallimento e finisce in un divorzio e in una causa, ha un aborto spontaneo e, quando finalmente ha una figlia, è talmente succube di droga e alcol che non riesce a prendersene cura. Anche la relazione con Robyn Crawford, che le dà forza fin da prima degli esordi, è oggetto di chiacchiere e diventa un problema da gestire per la cantante, che non riesce a sostenere la macchina del suo successo e cade in un abisso senza fondo.
Huston si riabilita due volte, esce dalle dipendenze e riemerge sotto le luci del palco, torna da Oprah e canta ancora. Però la sua voce non è più quella di prima e il pubblico, sempre disposto a chiudere un occhio sulle cadute della star, questo no, non glielo perdona.

Il film Whitney – Una voce diventata leggenda
Tutto il film ruota attorno al medley impossibile interpretato dal vivo da Whitney Huston agli American Music Awards del 1994. Questa, insieme all’inno americano al Super Bawl del 1991, è considerata la migliore esibizione della cantante. Come tale, però, è pietra di paragone suprema e, dopo il suo rientro in scena, tutti gliela ricordano. Anche la pellicola, che non lascia scampo alcuno alla donna già piegata dagli eventi.
Le aspettative erano alte, dopo aver visto il trailer. Eppure, nonostante tutti questi elementi e la sceneggiatura di Anthony McCarten, autore anche di Bohemian Rhapsody, il film non è quello che avrebbe potuto essere. Passi falsi e occasioni mancate non permettono a questo biopic di essere quello che aveva promesso di essere, quando era stato presentato come un modo di colmare le lacune lasciate dal documentario del 2018.
La protagonista, Naomi Ackie
Una premessa doverosa va fatta: l’attrice protagonista, Naomi Ackie, fa una grande prova. Sono evidenti l’impegno, la sincronizzazione del labiale, la prova del canto (le performance sono in playback, ma in un paio di occasioni canta con la sua voce reale), l’imitazione dei gesti e delle espressioni. La luce ironica dello sguardo e il sorriso aperto ricordano proprio quelli della cantante.
Ho trovato una forza inaspettata nell’interpretare Whitney Houston. Non sono un’attrice che si porta a casa i personaggi. Tra “action” e “cut”, concentro tutte le emozioni, poi le lascio alla porta. Ma con Whitney, ho provato qualcosa di diverso. Sono entrata in contatto con me stessa e le mie capacità in un modo che non mi era stato chiesto di fare prima. Non interpretavo più solo Whitney Houston.
Naomi Ackie

Eppure, un’interprete diversa avrebbe potuto mettere in luce l’altra grande polemica che ha pervaso tutta la carriera di Whitney Huston: a detta dell’opinione pubblica, infatti, la star era troppo caucasica e pop per interpretare davvero l’anima black della musica a cui dava voce.
Se questo le permise di avvicinare tutta l’America bianca come nessun artista afroamericano aveva mai fatto, di contro, la popolazione di colore non si identificava con lei e sottolineava che stava tradendo le sue origini. Salvo pochi accenni, tutta questa tematica passa sottobanco.
Le occasioni mancate della sceneggiatura
Cresciuta respirando musica, dividendo il palco con la madre e i fratelli e con il padre che amministrava gli impegni di tutti, quando arriva alla fama Whitney continua ad avere accanto a sé lo stesso entourage. La pressione del confronto, dell’inversione dei ruoli, della responsabilità di sostenere tutte quelle vite è passata in sordina, con pochissime battute nell’arco narrativo del film. L’effetto è la mancanza di empatia in tante scene.
Anche per la relazione con Robyn Crawford, si poteva avere un diverso approfondimento. Appena Bobby Brown si affaccia all’orizzonte, questo affetto viene messo da parte, all’apparenza senza conseguenze, pur essendo presentato in tutta la prima parte del film come importante per Whitney, sia dal punto di vista emotivo che artistico.
Lo stesso valga per il rapporto con il suo agente, che Stanley Tucci interpreta in maniera delicata e ironica. Nascosta dietro una delle prime battute – «Io non mi lascio coinvolgere nella vita dei miei artisti» – passa in sordina una grande amicizia e una prova attoriale delicata che avrebbe meritato più spazio.
Il film delude principalmente per un motivo
Non prende una posizione netta su tantissimi aspetti, per cui non approfondisce e, di conseguenza, non arriva allo spettatore. Per celebrare la memoria di un’artista così unica, si sperava in altro.
Il film non emoziona. La voce di Whitney Huston invece, continua a farlo e lo farà sempre. Ascoltala nella playlist Spotify di Other Souls con la selezione dei brani.