Ultimo sangue è l’ultimo romanzo di Diego Di Dio per La Corte Editore. Seguito attesissimo di Fore Morra (Fanucci), chiude le vicende dei sicari Alisa e Buba in una cornice tribolata come quella della malavita napoletana. Questa volta i killer sono assoldati da donna Teresa, vedova di un boss, per vendicare l’assassinio non soltanto di suo marito ma anche di suo figlio. Quello che Alisa e Buba ignorano è che accettare il lavoro darà inizio a una discesa rocambolesca, dritta al cuore del male puro.
Come chiederò poi allo stesso Diego nell’intervista riportata qui sotto, Ultimo sangue è un romanzo che parla di oscillazione, in quelle che sono più dimensioni. L’altalena è costante tra gli estremi del bene e del male ma anche tra i sentimenti e, soprattutto, tra l’inizio e la fine. In Ultimo sangue c’è una continua ricerca del principio, accompagnata dalla costante sensazione che quel che stai leggendo sia, in qualche modo, terminale. Definitivo.
Si presuppone che chi vive di parole debba sapere bene come farsi capire e invece, posso dirlo, è difficile spiegare la tensione che si percepisce tra le pagine di Ultimo Sangue, distribuita tanto nei protagonisti quanto nei personaggi secondari. Il romanzo è un dedalo di personalità complesse, ognuna con il proprio arco narrativo e una sorta di determinismo cosmico che conduce in un dato posto, in un certo istante, fino al finale che è anche un po’ il termine di un’apnea.
Poiché nessuno meglio di un autore sa parlare del suo lavoro, lascio dunque la parola a Diego Di Dio
Se penso alla prima parola che mi viene in mente leggendo Ultimo sangue, è oscillazione. Sul concetto, in più punti, ci giochi anche tu. Quando dici che bene e male sono separati da un passo, penso sempre che i protagonisti del tuo libro oscillino dentro e fuori i confini del bene. Non ci sono veri buoni, è vero, ma a modo loro neanche veri cattivi. Cosa determina per te la forza di queste oscillazioni, avanti e indietro tra questi estremi?
Hai colto benissimo il concetto principale di questa storia: oscillazione. Non esistono persone del tutto buone né persone del tutto cattive (salvo eccezioni, forse). Gli uomini e le donne non sono fogli bianchi o neri, ma vari oscillazioni di grigio o mescolanze di altri colori: è troppo facile dividere la gente in maniera manichea, mettendo da una parte i buoni e dall’altra i cattivi. E spesso noi, come persone, ci mettiamo tra i buoni, giusto? Troppo facile. In Ultimo Sangue, anche se tifiamo ovviamente per Alì e Buba, sappiamo che loro due non sono del tutto buoni; così come non sono del tutto cattivi i villain, i loro nemici. Ognuno di loro è un universo in contraddizione, un mondo spezzato, un microcosmo frantumato. Ovviamente questa storia porta all’esasperazione una serie di concetti che, per me, sono applicabili a ognuno di noi, al nostro quotidiano.
Nei corsi di narrativa sentiamo spesso dire che all’eroe serve una ferita, che questa è il suo tratto caratterizzante. Mi piace che in Ultimo sangue questa ferita non sia propria soltanto del protagonista ma si estenda a tutti i personaggi. Il libro è una storia sanguinosa per i vissuti di chi la vive, sopra ogni scena d’azione, e lo scrittore deve essere capace chirurgicamente di giocare con queste ferite, con gli spazi aperti nella carne. Ecco, da autore e insegnante, come organizzi queste operazioni?
Cerco di dare dignità a ogni personaggio. Cerco di far sì che ogni personaggio sia un mondo distonico, un’anima spezzata, uno spirito vagante in conflitto con se stesso e con gli altri. Alisa e Buba parlano di Notte Oscura per riferirsi a quell’episodio, a quell’evento del passato, che li ha trasformati per sempre; è successo qualcosa di grave e determinante nelle loro vite, quando ancora non si conoscevano: la Notte Oscura. A ben vedere, però, ogni personaggio di questo romanzo ha avuto una propria Notte Oscura; ognuno di loro, anche i nemici dichiarati o i personaggi esagerati come il Mascherato o il commissario Maresca, ha avuto, a ben vedere, una Notte Oscura, un evento spezzante, dirimente, che li ha trasformati.
Ogni personaggio, qui, è una ferita. Torniamo al concetto di sopra: non vale forse per ciascuno di noi? Ognuno di noi non si porta dietro ferite, piccole o grandi, che ci hanno reso quello che siamo oggi, nel bene e nel male?
In Ultimo sangue è forte il tema della denuncia sociale. Anche le realtà che descrivi sono come le ferite aperte di un gigantesco personaggio?
Certamente. Credo che il noir, forse più degli altri generi, abbia dimostrato nel tempo di saper affrontare contesti sociali e umani molto particolari. Di saperli sviscerare, in un certo senso. Ho voluto raccontare questa storia prendendo in prestito, come ambientazione, una serie di zone di cui si sente parlare poco; un insieme di contesti particolari, assurdi, bellissimi e degradanti al contempo. Castel Volturno, Pescopagano, tutto il litorale domizio. Zone poco conosciute, che tuttavia presentano, da anni, situazioni al limite del surreale. Contraddizioni talmente radicate nel tessuto sociale che, sì, sembrano ferite.
Fore Morra parlava dell’assenza di redenzione e, in un certo senso, Ultimo sangue ricalca il concetto senza sconti, almeno agli occhi di chi segue la vicenda con occhio fattuale, se mi passi il termine. A voler guardare più a fondo, viene da domandarsi quanto la redenzione sia un percorso intimo, da intraprendere attraverso le proprie notti oscure, oscillante e convergente con le notti degli altri, altri archi narrativi che si chiudono ma lasciano comunque un sentore di sospensione. Qual è la differenza tra redenzione e chiusura, dunque?
Il sottotitolo di Fore Morra, la prima avventura di Alisa e Buba, era “Senza redenzione”. In Ultimo Sangue, se dovessimo trovare un sottotitolo, potremmo parlare di sospensione, di chiusura parziale. D’altronde la redenzione è un concetto vago, a volte fumoso; i protagonisti di questa storia, due assassini a pagamento, dovrebbero redimersi? Certo. Ma allora dovrebbero redimersi anche le persone che hanno fatto loro del male, scatenando la loro violenza cieca. Dovrebbero redimersi tutti i personaggi di questo romanzo: ognuno è colpevole ma, al contempo, innocente, perché si porta dietro il male che ha subito per anni, o nella famosa Notte Oscura. Scrivendo il finale di questo romanzo, ho pensato che parlare di redenzione elementare (i cattivi diventano buoni e fanno pace con la vita) fosse troppo facile, troppo banale. D’altronde la vita non è così, giusto? Non tutto è un viaggio dell’eroe che si conclude con la conquista dell’elisir; a volte non raggiungiamo mai questo elisir e, altre volte, non lo intraprendiamo nemmeno, il viaggio dell’eroe. A volte la vita, banalmente, non fa sconti, e dà ai capitoli del nostro vissuto un finale inatteso e ingiusto. Per questo, più che di redenzione o salvezza, parlerei di sospensione: la vita vera non fila sempre coma una trama ben architettata, ed era questo il senso che volevo trasmettere con l’epilogo di Ultimo Sangue.
In questo caso, il nero è il colore che domina all’interno del romanzo, più che un genere letterario. Parlando di noir, come d’altro canto farai nei corsi di Other souls, possiamo intuire come da semplice genere poi questo possa declinarsi in ambientazione o stato d’animo, o addirittura identificarsi in un personaggio specifico. Qual è per te il significato più specifico del termine?
Guarda, il noir mi piace più di qualsiasi altro genere (non a caso, scrivo noir e thriller) perché, per me, è una forma di terapia; è come andare dall’analista, in un certo senso. Il noir non fa sconti, contrariamente magari al giallo classico. Il noir prende una fetta delle nostre vite e del nostro mondo e la affronta in maniera impietosa, spietata. Sporcarsi le mani, infilandole nel nero torbido del mondo, ci consente di capire tante cose, per me, sia a livello sociale sia antropologico. Ovviamente le storie sono un pretesto, un mezzo per sbattere in faccia al lettore (e all’autore che ne scrive) la parte più oscura di noi, quella meno trasparente, quella di cui forse ci vergogniamo. La cronaca nera, ogni giorno, ci ricorda cosa potremmo diventare dopo una semplice giornata storta (lo diceva anche Alan Moore con Joker, ricordi?); e il noir fa questo, in ultima analisi: ci dice non tanto chi siamo, ma cosa potremmo essere. Cosa potremmo diventare, se alimentassimo quella parte nascosta di noi, quell’anfratto buio. Quella metà oscura, per dirla alla Stephen King.
Durante il corso, insegnerai a tutti a essere bravi come te? (Sentiti libero di rispondere da super eroe).
Ah ah (rido).
Da poco una studentessa, che ha finito di leggere Ultimo Sangue, mi ha chiesto: “Prof, ma tu vorresti che noi scrivessimo come te?”. No. Vorrei che ognuno trovasse la propria strada, la propria cifra stilistica, il proprio modo di esprimersi, unico e prezioso. Non è facile, lo sappiamo bene, perché la capacità di scrivere qualcosa di davvero valido non richiede solo talento (che non si può insegnare), ma anche tecnica, consapevolezza, stile e disciplina (queste cose, sì, si possono insegnare, altrimenti non terrei corsi). Faccio il possibile, come docente, affinché ogni autore individui il proprio modo, unico e forte, di esprimersi. Magari anche diversissimo dal mio. Anzi, più è diverso dal mio più mi piace, perché mi dà la possibilità di confrontarmi con modi diversi di scrivere e magari, perché no, anche di imparare.
Diego Di Dio, autore, editor e agente, è fondatore della Saper Scrivere, agenzia letteraria, servizi editoriali scuola di editoria. Sarà insegnante per Other Souls con un corso interamente dedicato al noir.