Quando un determinato romanzo assurge all’olimpo dei cosiddetti “capolavori”? Quando vince premi internazionali, potrebbe essere la risposta. Oppure arriva in cima alle classifiche di vendita, o, ancora, quando, a distanza di anni, il suo titolo torna ciclicamente a riproporsi senza cedere all’oblio del tempo. Parliamo di Rumore Bianco, di Don DeLillo.
Vorrei aggiungere una peculiarità che ritengo fondamentale per accedere al Gotha letterario: un capolavoro non deve mai smettere di stupirci e insegnarci qualcosa. Per questo, dopo l’ennesima rilettura di Rumore Bianco, ho voluto condividere ciò che mi ha sorpreso dell’opera di Don DeLillo e finora mi era sfuggito. Parlo di un brevissimo stralcio proprio nel finale del libro, un paio di paginette appoggiate lì quasi per caso, quando tutta la trama si è ormai dipanata e sembra che una chiusa degna di cotanta maestria sia l’unica cosa che ancora possiamo aspettarci prima della parola fine.
Letture e riletture
Avevo poco più di vent’anni quando lessi per la prima volta Rumore Bianco e vi ritrovai intatta la forza evocativa che nel precedente Americana mi aveva affascinato. In quella prima lettura, credo, percepii soltanto l’estremo livello di paura e nevrosi che pervade il protagonista Jack Gladney, e come il rumore bianco del titolo fosse, in effetti, ciò che permetta di isolarsi dal mondo esterno per esorcizzarle.
Anni dopo vi riconobbi lo stato d’ipnosi collettiva indotta dall’iperconsumismo e dal progresso tecnologico. Forse perché, nel frattempo, anche da noi era giunta l’onda lunga dell’accumulo seriale e la paranoia del complottismo, che già impregnava la società americana a metà anni ’80. (Nel romanzo, una sfilza di notizie improbabili e strampalate riportate da giornali e notiziari che, alla prima lettura, mi erano parse bizzarrie fuori luogo, dieci anni dopo rilucevano di genialità sopraffina).
Un’ulteriore rilettura di Rumore Bianco mi permise, dieci anni orsono, d’individuare nel nucleo famigliare di Gladney il prototipo miniaturizzato dell’intera società, con le sue nevrosi e le panacee atte a mitigarne gli effetti. L’ironia tragica dello stimato professore di studi hitleriani, che sceglie per moglie la grassa Babette per godere della sicurezza di addormentarsi ogni notte tra i suoi seni generosi, me lo ha fatto amare infinitamente.
Rumore Bianco, un insegnamento spiazzante
Nell’ultima immersione, appena terminata, tra le pagine di Rumore Bianco, ormai acquisite le innumerevoli sfaccettature dei sui significati intrinsechi, mi sono soffermato sul dialogo del protagonista con una suora all’interno dell’ospedale dove Jack finisce per una ferita d’arma da fuoco e in cui la vicenda trova il suo epilogo surreale. Qui la religiosa, su sollecitazione di Gladney che le rivolge una domanda sulla visione cristiana del paradiso, svela un punto di vista del tutto inaspettato del ruolo monastico in quella società moderna tanto argutamente stigmatizzata nel corso del romanzo.
La religiosa, indignata dalle curiosità dell’uomo su santi, angeli e paradiso, chiede senza mezzi termini se il professore la considerasse una stupida e, all’interdetta reazione di Gladney, rincara la dose, domandando a sua volta perché, visto che lui è il primo a non crederci, dovesse farlo lei. “Perché lei è una suora!” è la logica confutazione del protagonista. Altrimenti perché condurre una vita di preghiera, rinuncia e abnegazione?
A questo punto la risposta che spiazza il lettore non meno del pragmatico professore: per permettere a tutti voi di andare avanti con la vostra vita di miscredenti. Voi che ritenete giusta la vostra mancanza di fede avete assoluta necessità che qualcuno creda, altrimenti la vostra esistenza non avrebbe senso. Noi ecclesiastici immoliamo la nostra vita per questo: fingere di credere per salvaguardare l’imperante agnosticismo e farlo in modo così assoluto e totalizzante da rendere la nostra finzione una vera forma di devozione, ma ciò non conferisce a nessuno il diritto di crederci stupidi. Il ribaltamento è totale, straniante, destabilizzante. Il protagonista ne uscirà umiliato e ferito nell’orgoglio più che dal colpo di pistola che gli aveva trafitto il polso. Il suo realismo, già provato dagli avvenimenti che avevano messo la sua vita in pericolo, subirà il colpo del decisivo knock out.
Come il lettore, avvertirà un senso di realtà sfuggente, un segreto appena intuito sotto il velo del pensiero imperante nella società dei consumi. Qualcosa, però, in lui si squarcia. Un nuovo barlume di speranza, forse soltanto l’intuizione che c’è di più oltre al rumore bianco. Qualcosa innescato dallo spregio di quella risposta che, nonostante tutto, gli farà concludere:
La cosa strana è che tutto ciò lo trovavo bello.
Piero Malagoli