Quante volte capita di perdere la testa per un film o una serie tv, scoprendo solo in un secondo momento che sono tratti da un libro? Il cinema in particolare ha sempre amato attingere alla letteratura per trasformare le sue parole in immagini in movimento. Non c’è genere o opera letteraria che il cinema non abbia saccheggiato, da L’Inferno (1911, Helios Film) a Nightmare Alley (2021, Guillermo del toro). Quella del racconto audiovisivo, però, è un’arte che segue regole ben diverse dal testo scritto.
Racconto audiovisivo: tante, troppe differenze
Innanzitutto, il racconto audiovisivo si basa sul mostrare più che sul “dire”. Con questo intendiamo la generale tendenza dei racconti letterari ad essere più o meno descrittivi. È una forza propria del romanzo (pensiamo a Proust, Joyce, Tolstoj), ma è anche un limite. Il quale, per giunta, si configura come un limite esterno al medium letterario. Perché il problema non è mai la descrittività in sé (quantomeno nel caso delle grandi penne della letteratura), bensì i limiti culturali o immaginativi dei lettori, che invitabilmente ne riducono l’efficacia. Cinema e serie tv, invece, possono (e devono) sfruttare l’immediatezza comunicativa dell’immagine: costumi, scenografie, colori, luci, composizioni e inquadrature.
Ad esse il racconto audiovisivo aggiunge il suono. La musica è un’altra componente estranea al medium libro, ed introduce con sé tutta una serie di regole e alternative ben precise. L’accompagnamento musicale di un film può essere diegetico o extradiegetico. Il primo caso è quello della musica avvertita dai personaggi, che fa parte del mondo mostrato su schermo. Il secondo caso, invece, è quello delle musiche di accompagnamento, che i personaggi non avvertono ma che servono a produrre una reazione emotiva nello spettatore. Quindi, per esempio, le sviolinate che accompagnano i killer negli slasher non vengono udite dalle loro vittime, ma solo da chi li guarda in sala.
Per il passaggio da carta a schermo bisogna trovare anche i punti in comune
Adattare un racconto in un buon prodotto audiovisivo significa prima di tutto conoscere a menadito il materiale di partenza. Storia, personaggi, relazioni tra di essi, dialoghi. Dell’opera nel suo complesso si deve poi lasciare tutto ciò che può funzionare così com’è. Ma soprattutto bisogna separare ciò che va eliminato da ciò che può funzionare a patto di introdurre opportune modifiche. I dialoghi, ad esempio, che di solito vanno snelliti. Molti dialoghi presenti nei libri non funzionerebbero al cinema senza modifiche, perché troppo lunghi.
Per ogni racconto audiovisivo bisogna identificarei momenti più importanti del romanzo o del racconto da cui è tratto, e soffermarsi su di essi. Quali sono i punti di svolta della trama? Normalmente si segue un classico schema in tre parti: presentazione personaggi e situazione iniziali, conflitto (il problema che mette in moto gli eventi), scioglimento (la risoluzione, triste o felice, del problema).
Ma c’è una domanda in particolare a cui ogni regista (o sceneggiatore) deve rispondere. Come rappresentare l’interiorità dei personaggi? In un libro, ciò avviene o tramite la voce narrante o tramite la voce interiore degli stessi personaggi. Niente come la letteratura permette di entrare nella testa delle persone. Ma il cinema non può fare la stessa cosa, a meno di non ricorrere al voice over. Il che equivale a camminare sul filo del rasoio: un passo falso ed è la fine, il film diventa noioso. Ciononostante, il cinema può usare musica, recitazione e regia per esprimere ogni emozione.
Racconto audiovisivo: scegliere il formato giusto
Per adattare un romanzo a film o serie tv bisogna anche trovare il format giusto. Un film di due, tre ore? Una serie tv divisa in stagioni? Una miniserie? Soprattutto la serialità può divenire un grattacapo.
A seconda della storia di partenza, infatti, potrebbe risultare più o meno indicato ricorrere adiversi tipi di serialità. Per esempio, La Regina degli Scacchi ben si prestava ad una miniserie orizzontale, in cui ogni episodio sviluppa la storia in modo diretto e costante. Il Trono di Spade, invece, doveva necessariamente essere diviso in più stagioni, per via dell’alto numero di personaggi e per la ricchezza della trama. Pochi, in realtà, sono i serial che oggi adottano la cara vecchia serialità verticale, in cui ogni puntata è praticamente a sé stante. Un’eccezione di un certo successo (che poi sarebbe un misto tra le due) è Sherlock, fatta di episodi autoconclusivi.
Ognuno di questi format segue regole proprie e possiede pro e contro. Ognuno gestisce personaggi e trama in modo diverso, e produce quindi un prodotto audiovisivo diverso. Se ti interessa l’argomento potresti trovare utile il nostro corso Dal romanzo al film, tenuto da Dario Bonamin.