‘Prospettiva privilegiata’ é un racconto breve di Daniela Piras. Racconta una breve storia da tre prospettive differenti di tre personaggi che vivono la stessa situazione.
Il primo incontro
La prima volta che lo vidi era estate inoltrata, il vento caldo non riusciva a smorzare l’aria rovente e il sole faceva scintillare le rocce chiare di granito che s’intravedevano in lontananza. Trasudava dentro alla divisa blu, appoggiato al cancello di fronte all’ingresso della Banca di Credito Sardo. Non era bello, né particolarmente affascinante; capelli scuri cortissimi, occhi scuri, altezza nella media e sguardo distratto. Quello che mi colpì maggiormente, inutile negarlo, fu la divisa. Quel blu scuro così ordinato, quelle stellette sistemate in cerchio ai lati delle spalle, il cinturone e la pistola. “È un poliziotto”, mi dissi, sbagliando. Iniziai a camminare insieme a mio figlio, che tenevo per mano. Gli passai così vicino che non poté non notarmi. Lo sfiorai, quasi. Una volta che riuscii a catturare l’attenzione dei suoi occhi, gli sorrisi. Belshar mi teneva la mano stretta e mi osservava, curioso.
Il primo sorriso
All’epoca aveva solo otto anni anche se si comportava in maniera assennata, quasi a voler contrastare il mio modo di fare, avventato e talvolta irresponsabile. Da qualche anno, però, mi ero ripromessa di seguire la retta via. Esattamente da otto anni prima, dalla sua nascita. Belshar non aveva un padre, non l’aveva mai conosciuto. Come me, in fondo. Mi vergognavo anche con me stessa e ancora oggi, quando ci penso, mi sento male. Non sapevo chi fosse il padre di mio figlio. Ero indecisa tra due uomini. A lui avevo detto che io e suo padre ci eravamo lasciati quando lui era piccolissimo, avevo detto che suo padre era partito per un Paese lontano, dall’altra parte del mondo. In realtà non mi ero mai posta seriamente il problema, non mi interessava sapere con esattezza chi fosse il padre di mio figlio. I due probabili erano pari in quanto a deficienza e con entrambi si era trattato di una storia di una notte quindi, sapere quale fosse, esattamente, il deficiente con il quale avevo concepito il mio bambino, non mi interessava granché. L’uomo in divisa ricambiò il sorriso, visibilmente imbarazzato. Mi accorsi della sua reazione e mi sentii lusingata. Ero ancora bella. Ci dirigemmo verso casa di Enrico, l’anziano a cui tenevo compagnia.
L’amante rumena
Enrico era un uomo cortese, alla vecchia maniera. Aveva i modi da gentiluomo che si leggono nei romanzi rosa. Mi aveva accolta nella sua casa senza diffidenza. Vivevo a casa sua, facevo la badante a tempo pieno. Mi occupavo della casa, delle pulizie, di fare la spesa ma, soprattutto, mi dedicavo a lui, a fargli compagnia. Solo compagnia. Anche se in paese le malelingue si davano molto da fare nell’additarmi come la sua amante. L’amante mantenuta romena. La parola romena faceva rima con prostituta, per loro. Enrico era a conoscenza delle voci che giravano ma le ignorava. Io cercavo solo di fare bene il mio lavoro e di far crescere Belshar nel miglior modo possibile, anche se la vita in quel piccolo paese cominciava ad andarmi stretta. Erano quasi tre anni che vivevo nel centro della Gallura, in un paese di trecentocinquanta anime. Quella mattina ero uscita con Belshar a fare le solite commissioni, vista la giornata particolarmente bella avevo approfittato per fare un giro un po’ più lungo del solito ed ero passata anche nella zona centrale. Una volta a casa preparai il pranzo ad Enrico e poi andai nella mia camera. Belshar si era fermato a giocare nella piazzetta di fronte, dove aveva incontrato una sua amichetta. Mi sedetti e cominciai a pensare. Riflettei su quella che era stata la mia vita e sul punto a cui era arrivata. La Sardegna mi piaceva molto, non avevo intenzione di andare via. Mi sentivo, però, come in una gabbia, la vita del paesino non mi soddisfava più. La sicurezza acquisita aveva reso la mia vita piatta e prevedibile. Qualcosa cominciava a balenarmi nella testa, e aveva a che fare con l’uomo in divisa.
Quando le sorrisi…
La prima volta che la vidi era estate inoltrata. Mi ricordo che c’era un caldo soffocante. Avevamo ancora le divise autunnali, quelle con le maniche lunghe. Era il mio primo giorno di lavoro alla banca. Ancora oggi mi chiedo come mai avessero sentito la necessità di far vigilare l’ingresso della banca in un paesino così tranquillo dove, a memoria di uomo, non si ricordava una sola rapina. Ad ogni modo quei turni erano devastanti, mi toccava fare ogni giorno centoquaranta chilometri, tra andata e ritorno. Mi alzavo la mattina alle sei, per essere al lavoro alle otto e andavo via alle tre. Imprecavo contro quel caldo afoso e sognavo mi piazzassero un ventilatore proprio lì davanti. La tranquillità, nel nostro lavoro, fa spesso coppia con la noia. Contavo i minuti e poi le ore, e il tempo non passava mai. Mi ricordo che appena la vidi non riuscii a staccarle gli occhi di dosso. Cercavo di far finta di niente, guardando qui e là, in maniera nervosa. Non si vedevano spesso donne così, e non se ne vedono tutt’ora. In segno di rispetto verso il bambino che teneva per mano mi limitai a guardarla con discrezione. Non so se si accorse che la guardavo, o se si avvicinò per caso. Me la ritrovai ad un passo. Mi sorrise con sfacciataggine. Ero sicuro di piacerle davvero.
L’avvertimento
Almeno così mi fece credere, per anni. Allora non avevo dubbi. A pensarci ora mi sento proprio uno stupido. All’epoca uscivo con Marzia, una ragazza del mio paese, ci vedevamo da un paio di settimane. Ho sempre pensato che fosse una brava ragazza, e forse io non sono fatto per le brave ragazze. So che si è sposata e che ha avuto due figli. Ogni tanto chiedo di lei ad amici in comune. E mi chiedo cosa sarebbe successo se quella straniera non fosse entrata nella mia vita in maniera così sfacciata. Per tutto il mese che passai in Gallura mi assillò con la sua presenza. Aveva un piano, e ora ne sono certo. Credeva fossi un poliziotto! Solo un’idiota poteva confondere un vigilantes con un poliziotto. Un’idiota o una romena. In ogni caso una persona che viene da un altro mondo. Me l’aveva detto mia madre, eccome se me l’aveva detto! Non le era mai piaciuta, quella romena.
Pene materne
Lo sapevo, lo sapevo io che quella avrebbe finito per rovinarlo! Ora è lì, e non sa dove sbattere la testa. Questa camera è colma come un uovo, le mie cose sparse senza un ordine preciso. Quanto cambiano in fretta le cose, non si ha il tempo di abituarsi. Ecco, ora ce l’ha di nuovo con me. Mi guarda e scuote la testa. Si aspetta forse una risposta? Ormai non ho più niente da dire, se non queste due date. L’inizio e la fine. E se potessi parlare non mi interesserebbe nemmeno parlare di quella. Quello che avevo da dire l’ho già detto all’epoca, e non sono stata ascoltata. Ormai è tardi. Inutile piangere. Inutile anche cercare di nascondere quella lacrima, io vedo tutto. Posizione privilegiata, la chiamano così. Vorrei solo sapere dove si trova Ketty, la mia adorata gattina. Non so dove l’abbiano portata ma è sicuro che non vive più qui. E dentro a questi scatoloni non c’è di certo. Cerco di comunicare con mio marito ma senza successo. Già era difficile in vita, ora pare proprio impossibile. Siamo vicini ma non siamo nella stessa orbita. Non so dove sia finito, forse ha approfittato della tragedia per liberarsi finalmente di me. Quindi sono sola.
Prospettiva privilegiata
Cenere eravamo e cenere torneremo. Ecco che suonano alla porta. Ospiti nella mia casa. Li vedo entrare nella sala, mi si siedono proprio davanti. Lui offre da bere. “C’è di tutto: coca cola, aranciata, caffè, ditemi voi cosa preferite”. Ovvio che c’è di tutto, la tenevo fornita io, la dispensa, e così il frigo. Non ho mai badato a spese, e non rimpiango niente. Quanto casino in questa casa, ci vuole coraggio ad ospitare degli amici. A guardarli bene, però, non sembrano amici, questi due, sono vestiti in maniera troppo formale. Eccolo che si mette nuovamente a cercare dentro gli scatoloni. Ma cosa cerca? Documenti? Testamenti? Sì che gli ho lasciato tutto, ovvio, è figlio unico. Sì, è vero, gli ho lasciato anche i debiti, ma chi ci pensava di andarsene così presto? Mi viene un dubbio inquietante: vorrà vendere la casa? La casa che non ho fatto in tempo a pagare? Mi dovrò trasferire? Va bene che ormai occupo poco spazio, ma cambiare casa fa sempre un certo effetto! In ogni caso non lo vedo bene, mi sembra che questi traumi e queste corna gli abbiano fatto girare il sistema nervoso. Ecco di nuovo il sopracciglio che balla, e il piede che batte due volte il tempo. Tutti questi tic non sono indice di benessere. E comunque avevo ragione io, questi due che sorseggiano la mia coca cola sono qui per vendere la mia casa. Povero figlio, in che casini sei finito, per non aver dato retta a tua madre. Non riesco a pensare ad una soluzione. Cerco di ascoltare bene quali sono esattamente i debiti che ti ho lasciato. I due in giacca si guardano intorno mentre parli, sono incuriositi dai quadri alle pareti e da tutti i miei souvenir. Uno di loro mi nota e arriccia il naso. Cenere eravamo e cenere torneremo. Di cosa si stupisce? Ho solo cambiato stato. Sono finalmente riuscita a dimagrire, in vita non mi era mai riuscito. Ora ho finalmente una forma elegante, con i fianchi ben segnati. Lineare e allungata, la mia forma. Tono muscolare forte, marmoreo. La foto a fianco non mi rende giustizia.
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