Pratiche quotidiane di felicità (Morellini Editore), di Mario Raffaele Conti ed Elia Perboni, è un libro che parla di yoga raccontando storie. Vuole darti la verità assoluta su temi di spiritualità? No, vuole metterti in contatto con te stesso. Bisogna essere uno yogin, per leggerlo? No, bisogna essere curioso.
Le testimonianze
In Pratiche quotidiane di felicità non troverai una guida passo per passo su come contorcerti sul tappetino. Leggerai però quattordici testimonianze di persone che sicuramente conosci. Laura Marinoni, Giobbe Covatta o Sergio Múñiz ne sono un piccolo esempio. Questi personaggi parlano della loro spiritualità e di come inseriscono le pratiche dello yoga nella loro vita quotidiana; non solo: parlano di come rendere personale una pratica. Questo per dimostrare che seguire un precetto non è importante quanto interpretarlo alla luce del tuo vissuto. Questi quattordici racconti di vita messi insieme creano uno specchio a cui guardare per vedere te stesso.
Gesti privati in momenti quotidiani
Ultimamente, il medico mi ha detto di camminare quaranta minuti al giorno. Se all’inizio credevo che questa pratica mi togliesse del tempo, man mano ho capito quanto fosse vero il contrario e che in quei quaranta minuti c’era l’equilibrio della mia giornata. Leggendo Pratiche quotidiane di felicità ho scoperto che anche Moni Ovadia ritaglia del tempo per camminare, che usa questo espediente giornaliero per entrare in contatto con un flusso più profondo di pensieri, quelli liberi di salire a galla quando è il corpo a essere più leggero. Ovadia intreccia questa buona pratica alla sua natura più intima, trasforma un atto quotidiano in una riflessione sulla religione, la storia, la violenza e la carità. La passeggiata – cosa ci sarà di più banale, direte voi! – diventa un momento filosofico. Esiste una pratica yoga concentrata sul cammino? Sì, è la meditazione camminata. È importante eseguirla così come manuale vuole? No, è importante però sapere che una saggia passeggiata colma più livelli di distanza.
La prima cosa
Diresti mai che un sorriso a te stesso è una pratica buddhista?
Si dice che al mattino guardarsi allo specchio e sorridersi sia una buona abitudine. Come la camminata è una spia del tempo che ti dedichi, il primo sorriso del giorno mette in luce l’amore che ti dai. Deve essere un atto gentile, che parte dagli occhi. Bene, tra le tante pratiche quotidiane di felicità che il libro suggerisce e che ho provato a seguire, proprio questa mi ha creato non pochi turbamenti. Sembra facile, eppure al mattino tutto quello che vedo sono i miei mille impegni, dimentico che hanno un elemento in comune: me. Ho riflettuto su questo e sono giunta alla conclusione che forse non siamo gentili con il prossimo perché non riusciamo a esserlo con noi stessi. La prova empirica? Vai alle poste, in un giorno qualsiasi, prima o poi sentirai: “Eh, io sono buono con tutti, ma a me poi chi ci pensa?”. Ecco, a questo ora ho trovato risposta: a me ci penso io, sorridendomi ogni giorno perché la felicità generi altra felicità.
Farsi presenza
C’è un momento, in Pratiche quotidiane di felicità in cui Cinzia Primatesta, moglie di Antonino Cannavacciuolo, parla dell’ereditarietà del gesto proprio a proposito della presenza del marito in cucina. Più avanti ancora, Padre Antonio Gentili racconta di come ha inserito la pratica dello yoga nei suoi ritiri spirituali. Quello che accomuna le due testimonianze non è tanto l’applicazione delle pratiche meditative nel quotidiano quanto l’analisi sul gesto in sé. Siamo abituati a deambulare nello spazio ma meno a farlo con la consapevolezza che proprio il movimento è frutto di volontà. Dunque: quanta coscienza metti davvero nelle tue azioni? Lo yoga ci prova, a dare una risposta: respira, sentiti, prendi atto che la tua mano ha un peso, che il tuo corpo agisce in un contesto e anzi, che proprio tu generi l’azione. È una grossa presa di responsabilità, questa. Scopri che sei il frutto di tante piccole scelte, che la tua vita è fatta di potere decisionale. Farsi presenza vuol dire assumersi in carico la propria persona e non c’è un atto più liberatorio di questo.
Ecco.
Ti senti contorto su un tappetino, adesso, o come me hai voglia di guardare al di là dei tuoi stessi confini?
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