Un giorno ormai lontano nel tempo, una giovanissima Patrizia Cavalli camminava al fianco di Elsa Morante, quando la scrittrice si fermò e le chiese: “Ma tu, che fai?”.
Lei – racconta a Scrittori per un anno – all’epoca studiava filosofia, ma sapeva che non poteva essere quella, la risposta da dare alla Morante, che ai suoi occhi era colei da non deludere per nessun motivo. Così, le disse: “Scrivo poesie”.
È stata la voglia di non scadere agli occhi del proprio idolo letterario, che ha spronato Patrizia Cavalli a rileggere le sue poesie, cancellarle, riscriverle meglio. Voleva impressionare Elsa che, si sa, aveva sempre avuto il giudizio falciante. Ecco, alla fine con i suoi versi ha impressionato tutti.
Se ancora non conosci la poesia di Patrizia Cavalli, lasciati incuriosire da questo omaggio circa i versi che per me sono quelli in grado di raccontarla meglio.
[…] Che cosa sono io?
Meccanica, legata, ubbidiente,
in schiavitù biologica e credente. […]
La cosa bella della poesia è che fa quello che dice, esattamente come quando pone una domanda e dà una risposta. La risposta che Patrizia Cavalli offre in Datura è un’affermazione di presenza, il ripristino di un controllo cosciente sulla propria vita. “Basta” scrive, “qui tocca a me decidere cosa mi accadrà”, e sono queste parole così potenti che vorresti tatuarle sul cuore, prenderle a esempio. La poesia fa quello che dice, ma agli occhi di chi la legge ogni messaggio è intimo e privato.
[…] Un altro è il mio progetto, la mia ambizione
è accogliere la lingua che mi è data
e, oltre il dolore muto, oltre il loquace
suo significato, giocare alle parole
immaginando, senza un’identità,
una visione. […]
Parliamo qui del ruolo del poeta, quel poeta che secondo Patrizia Cavalli non doveva spiegare, prima di un reading, la sua opera, sarebbe stato svilente. Il lascito dell’autrice sono di certo le sue parole ma, in realtà, queste non compongono la totalità del ricordo. In questi pochi versi, alla fine della poesia che dà il titolo della raccolta intera, la Cavalli afferma il ruolo del poeta e io, nel mio piccolo, affermo non l’importanza dell’interpretazione ma quella dell’evocazione. Dentro, queste parole, evocano la determinazione del fare, dell’ambire, dell’esserci.
La perfezione del primo vero male
non conosce permessi né riposi. […]
L’eco del dolore è forte e totalizzante, impregna il quotidiano in ogni minimo gesto. Chi legge questa poesia non può fare a meno di ricordarlo, il primo male, ancestrale e vero, che lascia angoli contro cui sbattere laddove prima c’erano solo curve. Solo poche parole, e si è subito solidali.
Un abbraccio, Patrizia, e grazie di tutto.