La figura paterna delineata da Gavino Ledda nel suo romanzo è frutto di una visione arretrata, sorretta da un substrato sociale aspro e crudo
Quando venne dato alle stampe, nel 1975, Padre Padrone ebbe l’effetto di un detonatore. Il romanzo venne amato, odiato, criticato, contestato e ripudiato da chi faticava a riconoscere come reale ciò che vi veniva raccontato. Autentico caso letterario, vincitore del premio Viareggio, Padre padrone racconta l’epopea sofferta e malinconica della ricerca di un’affermazione personale dell’autore, all’epoca 37enne, Gavino Ledda.
La realtà rurale ai margini
Siamo in Sardegna, nella seconda metà del Novecento. Il mondo rurale scandito dai cicli delle stagioni e dell’andamento delle colture è lo scenario in cui l’autore nasce e cresce. Il romanzo parte dal momento in cui Gavino ha sei anni e inizia a frequentare la scuola elementare. Vorrebbe imparare a leggere e a scrivere, stare con i suoi coetanei e giocare, ma non può. Il padre, Abramo, lo considera “roba sua” e decide quindi che la scuola non è necessaria alla formazione di “suo” figlio. Il piccolo Gavino viene trascinato letteralmente fuori dalla classe e ricondotto dove serve: in mezzo ai campi.
La campagna di Baddevrùstana di proprietà della famiglia Ledda non dista molto dal paese di Siligo, ma è un vero e proprio mondo a parte. Qui Gavino vive a stretto contatto con gli animali, imparando a gestire il gregge e a convivere con la sua solitudine. Ribellarsi è impossibile: il suo “papà” lo riporta alla realtà a suon di ceffoni, sminuendo qualsiasi sua ambizione o passione (ad esempio quella di voler imparare a suonare uno strumento musicale).
Una lingua “nuragica” creata ad hoc
Padre padrone fece discutere parecchio, sia per la storia narrata, sia per il modo originale in cui è scritto (una sorta di personale lingua creata ad hoc che mischia italiano e sardo). Qualcuno la definì una “lingua nuragica”, per rendere l’idea della potenza di quelle pagine, di quelle parole che sembravano colpi di scure.
Una storia di riscatto universale
Il desiderio di affermazione della propria esistenza, anche se ambientata in uno specifico contesto territoriale, ingloba in sé la storia di milioni di persone di ogni parte del mondo, in quanto esigenza universale. E qual è il modo in cui Gavino Ledda riesce a riscattarsi da un passato così crudele? Studiando, facendo luce su quelle che erano le sue ambizioni, i suoi sogni, le sue speranze, grazie alla sua costanza e alla sua sensibilità, fino a diventare professore di Glottologia a Roma.
Dal libro i fratelli Taviani trassero il film omonimo che vinse nel 1977 la Palma d’Oro al festival di Cannes. Il film rispecchia il forte senso di sofferenza emanato dal romanzo, aggiungendo scene la cui crudeltà arriva a far accapponare la pelle.
La figura del Padre padrone, Abramo, è quasi leggendaria. Il personaggio – per quanto negativo – non manca di mettere in luce alcuni tratti tipici degli “indefessi lavoratori” di un tempo: coloro che vivono per lavorare e per i quali il lavoro costituisce il senso stesso della vita. Non si tratta solo di un’esigenza volta a soddisfare i normali bisogni della famiglia, vi è qualcosa che sfiora l’ambito religioso in tale pratica.
L’insegnamento celato in pagine sofferte
Oggi questo romanzo potrebbe apparire superato e poco adatto alla lettura da parte dei ragazzi – facilmente impressionabili – ma non è così. In Padre padrone sono contenute lezioni che difficilmente si possono apprendere a scuola: la capacità di credere in se stessi, il valore del sacrificio come strada per ottenere uno scopo, la perseveranza, lo studio, la dote dell’umiltà, l’importanza di trovare il proprio ruolo nel mondo e nella società.
Un’enciclopedia storica e di analisi sociale attuale anche ai giorni nostri, perché la lettura – come la scrittura – a volte è sofferenza.