L’acclamata autrice afroamericana di fantascienza, vincitrice di 3 Premi Hugo consecutivi, dice la sua opinione sulla necessità di “raccontare per resistere”
Negli Stati Uniti è uscito l’anno scorso The City We Became, il primo volume della sua nuova serie fantascientifica The Great Cities. In Italia, lo scorso 2 febbraio ha visto l’approdo in libreria di La città di Pietra, terzo e ultimo romanzo della serie che le ha dato la fama, La Città Spezzata.
Nelle sue storie, N.K. Jemisin parla di razzismo, ingiustizie sociali, misoginia e altri temi sociali importanti. Il mese scorso, in un’intervista alla rivista online Fantasy Magazine, ha dichiarato:
Non vado certo a dire agli altri artisti come devono lavorare. Per me, comunque, è importante che l’arte rifletta accuratamente il mondo intorno a me – come si comporta davvero la gente, come funzionano le società, come avviene il cambiamento (o come non avviene). Anche se colloco tutto ciò in un altro mondo, avvolto in orpelli che non hanno nulla a che fare con la realtà, bisogna che certe cose siano realistiche. E questo diventa un atto politico, che io lo voglia o no.
N.K. Jemisin, intervista a Fantasy Magazine
Anche fuori dalle trame dei suoi libri, l’autrice ha sempre avuto un atteggiamento critico ed esplicito verso i mali del nostro tempo, e ha colto diverse occasioni per dichiarare la sua posizione: per esempio nelle dichiarazioni a riviste e quotidiani, e nei discorsi di accettazione dei numerosi premi ricevuti (celebre quello per il Premio Hugo del 2018, che iniziava così: “È stato un anno difficile, vero? Anzi, sono stati diversi, gli anni difficili. Un secolo difficile. Per alcuni di noi, le cose sono sempre state difficili”).
Forse, la vera differenza fra N.K. Jemisin e altri importanti autori di fantasy e fantascienza sta proprio nel modo in cui il suo impegno sociale e politico è esplicito, e affonda le radici nell’America di oggi, quella del #metoo e del #blacklivesmatter. Ma fantasy e fantascienza, ancorché generi bollati come prodotti di evasione da un establishment culturale troppo rigido, hanno spesso la loro ragione di esistere nella metafora sociale: pensiamo a Ray Bradbury, a Ursula LeGuin, a Philip K. Dick, a Margaret Atwood, a William Gibson, a Octavia Butler. Bene allora che anche la nuova regina della fantascienza, come alcuni la definiscono, difenda il suo diritto a puntare il dito contro ciò che offende la decenza umana, a raccontare per resistere contro gli estremismi e l’ignoranza; e bene che le sue storie non siano soltanto evasione (come alcuni presunti “puristi” della narrativa del fantastico vorrebbero) ma anche riflessione.
