Quattro anni fa usciva il primo romanzo di Marika Campeti, Il segreto di Vicolo delle Belle. Da allora, l’autrice romana ci ha deliziati con storie profonde che fanno della narrazione uno strumento per dare voce agli ultimi e a quei contesti dimenticati.
Amante dell’arte e legata alla scrittura da un rapporto intimo e positivo – «la scrittura mi ha aiutato a trovare equilibrio e serenità» ci racconta – Marika Campeti ha affrontato nei suoi ultimi due romanzi pubblicati da Augh! Edizioni – Lo scorpione dorato e Neravorio – temi come l’emarginazione, il razzismo e la violenza di genere con la forza di una narratrice talentuosa e delicata.
A ridosso della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Other Souls ha intervistato Marika Campeti e quel che ne è venuto fuori è il ritratto di una autrice sensibile che sa guardare con occhi attenti un mondo troppo spesso distratto.
Partiamo dall’inizio: quando hai iniziato a scrivere?
Ho sempre amato scrivere. Da piccola ero una bambina molto silenziosa – anche adesso! Amo molto ascoltare e pensare, meno parlare – ma all’epoca era una cosa accentuata. La parola non era il mio strumento di comunicazione. Grazie a una mia maestra sono stata portata a esternare attraverso la scrittura quello che provavo. Allora… ho iniziato a scrivere. E scrivevo molto! Mi dicevano che avevo una scrittura molto matura per la mia età.
In che modo la scrittura ha influito sulla tua vita?
La scrittura mi ha dato modo di esternare quello che non riuscivo a tirar fuori con la parola parlata e mi ha aiutato a trovare un equilibrio, una serenità. Ha rappresentato anche una valvola di sfogo nei momenti altalenanti tipici dell’adolescenza. Sì, mi ha aiutato tanto. Ho sempre scritto per me: per veicolare un sentimento – la rabbia, la gioia, l’amore – e all’inizio non pensavo che sarei arrivata a scrivere “per altri”.
Durante una presentazione del tuo romanzo Lo scorpione dorato, hai parlato del momento in cui ti sei, per così dire, “rimpossessata” della parola scritta…
È stato dopo la maternità. Ho trovato un momento per tirare un bilancio. Dopo il parto ero felice, mi sentivo realizzata e piena di amore. E ho sentito questo cassettino che era rimasto lì: il mio desiderio di scrivere, di dedicarmi alla scrittura, magari scrivere un romanzo. Una scrittura più impegnativa. Un conto è scrivere una poesia o un racconto breve, ma un romanzo è un’impresa più ardua.
In un periodo impegnativo come il primo anno di vita di mio figlio – periodo in cui le donne vengono dipinte come “esaurite” tra pannolini e biberon – ho voluto dimostrare che si può pensare anche ai propri sogni lasciati nel cassetto. Ed è stato proprio in quel periodo che ho scritto il mio primo romanzo.
E poi… è arrivato il secondo. Lo scorpione dorato…
Lo scorpione dorato, infatti, parla anche di maternità, ma in un contesto particolare: i campi profughi. Sono sempre stata sensibile ai problemi altrui, ma solo una volta che sono diventata madre ho avvertito davvero la differenza abissale che c’è tra la vita di un bambino che nasce in Italia e quella di chi nasce in un territorio di guerra. Ho sentito il dovere di fare qualcosa. Dolevo far conoscere le condizioni di questi esseri umani. Non volevo che le loro voci si perdessero nel silenzio o restassero solo numeri. Il romanzo è stato un modo per far conoscere le condizioni reali nei campi di rifugiati.
È una storia per tutti. Volevo toccare anche quel pubblico generalmente insensibile all’argomento, non soltanto quelli che in genere si interessano alla questione. Se racconti a chi “già sa” trovi terreno fertile, certo, ma se vai a colpire chi non sa fai centro. Queste persone finiscono il libro e pensano: “Accidenti! La condizione di questi bambini è reale. Non sapevo tutto questo. Lo avevo solo visto in televisione!”. E questo è possibile perché ti appassioni ai personaggi. È grazie ai personaggi e alla storia – ispirati alla realtà – che tutto questo funziona.
Quest’anno è uscito il tuo terzo romanzo: Neravorio. Una storia che tocca tanti temi e, ancora una volta, scava tra le storie sepolte. Penso alle “marocchinate”, un elemento “scomodo” della storia europea che spesso si fa finta di dimenticare. E poi è presente il concetto di “diversità” con quello che si porta dietro: emarginazione, bisogno di un senso di appartenenza…. Penso a Mauro, il poliziotto, fratello del protagonista, che si sente sempre “in prova”. E a Maria, personaggio fondamentale, che vive anche lei sulla propria pelle nera il conflitto delle sue origini…
Quando scrivo cerco di dare voce agli ultimi, quelli che nella vita non vengono ascoltati. Nel caso di Maria, il suo legame di sangue non si può nascondere, è nel colore della sua pelle.
Tuttavia, la storia del romanzo nasce da tutt’altro. Da una mia suggestione di quando ero bambina. Conoscevo la Torre Quadrata, questo edificio che si trovava vicino casa mia, a Terracina. Allora si parlava di certe leggende e la chiamavano “la casa del fantasma”. Eravamo bambini, sui dieci o undici anni. E c’era una maschera bianca attaccata alla finestra della Torre Quadrata. Noi volevamo sapere chi fosse questa donna ritratta nella maschera. La cosa ci suggestionava moltissimo! Sembrava guardarti sempre, con i suoi occhi vuoti. Negli anni ho chiesto agli abitanti e ho scoperto molte leggende, tutte diverse. L’unica cosa certa è che gli ultimi abitanti di quella torre sono stati un gruppo di ragazzi che avevano affittato la casa per suonare, fumare e parlare di politica e di libertà. E in più… dipingevano i muri!
Però mi è rimasto il dubbio: chi era la donna della maschera bianca? Nessuno ha saputo rispondere a questa domanda. Neppure il proprietario di casa – Fabio, un personaggio del libro che esiste davvero! Allora mi sono detta: ci penso io, la storia della maschera bianca me la invento io! E ho pensato: se questa maschera di gesso bianca fosse stata, in realtà, ispirata da una donna dalla pelle nera?
Poi Fabio ha letto Neravorio ed è stata una soddisfazione rivedere, di recente, una maschera di gesso molto simile a quella originaria, attaccata alla finestra.
Il romanzo nasce da questa suggestione, che ho preso e intrecciato con i temi di cui amo parlare. Amo fare riflettere il lettore su certi argomenti sociali: il razzismo, la violenza di genere e questo “sentirsi diversi”. Direi che questo è il modus operandi che vive nella mia scrittura, a prescindere dalla trama scelta.
Nei personaggi di Neravorio c’è molto dolore. Solo due cose sembrano sollevare i loro animi: l’amore e l’arte…
È vero. L’arte guida i personaggi nelle loro vicende. A volte si tratta di un incrocio di arti. Davide, il protagonista, arriva presto a un bivio: perde il suo lavoro di giornalista e soltanto grazie al suo “tornare indietro” nella spensieratezza si salva – è questo che gli dà Lara: è così giovane e piena di vita! – mentre lui si è ritrovato a un punto in cui non ha più un lavoro e non ha la stima degli altri. In Lara riscopre la scintilla per affrontare quei fantasmi del passato che lui, pur non conoscendoli davvero, percepisce nell’aria. In questo senso l’arte di Lara – la danza – si incrocia con il vuoto in cui si ritrova Davide e gli dona il coraggio di affrontare il passato.
Mentre Davide perde la scrittura – o meglio, mentre rimane senza un pubblico – scopre che anche il padre ha perduto la sua arte – la pittura – nel momento in cui ha perso l’amore della sua vita.
Dove va a mancare un personaggio, arriva un altro personaggio che va a riempire quel vuoto con l’arte.
È un aspetto che rispecchia anche me che amo molto l’arte, i colori, la danza…
In Neravorio voglio portare il lettore a riflettere sulle occasioni che ci pone la vita, sul vivere il presente senza lasciarsi nulla indietro e, soprattutto, sull’importanza di non lasciare questioni irrisolte, equivoci che poi finiscono per separarci dalle persone che amiamo.
La postfazione de Lo scorpione dorato è di Arianna Martini, presidente di Support and Sustain Children, una ONLUS che ha come obiettivo migliorare le condizioni di vita dei bambini siriani…
Support and Sustain Children è stata un “ponte reale” tra me e quei bambini. Ma partiamo dall’inizio.
I volontari operano al confine turco-siriano, vicino ad Al-Dana. Il campo non ha un nome in quanto non è un campo governativo. L’associazione ha scelto di operare in quei campi che sorgono spontanei. Il campo è “nato” dalla gente che scappava: col tempo si sono aggiunte sempre più persone.
I proprietari terrieri utilizzano queste persone come manodopera. Aumentando la forza lavoro, si allarga anche il campo. È diventata una comunità vera e propria, divisa per etnie, nazionalità… e ci sono molti bambini. Ma è anche un luogo pericoloso.
Spesso si dice: “Ma io cosa posso fare?”. Ecco, è proprio quando fai qualcosa che inizi a fare la differenza. Anche con poco. Gli stessi lettori de Lo scorpione dorato, acquistando il libro, sono diventati mamme e papà di cinque bambini siriani: Alja, Sahar, Rouba, Majda e Ahmad.
Una volta, i volontari di Support and Sustain Children sono andati in Grecia. Quando vai in aereo non puoi portare molte cose. Le compri sul posto e poi le doni. In Grecia sono andati con un furgone e hanno potuto portare molte cose. Avevamo raccolto indumenti pesanti in vista dell’inverno. Io avevo mandato alcuni vestiti pesanti e un paio di scarpine da neve molto particolari e facilmente riconoscibili di mio figlio. Quando, tempo dopo, ho visto le foto della spedizione, ho notato un bambino sulle spalle del papà che indossava le scarpine di mio figlio. Le ho riconosciute subito. Queste esperienze ti aiutano a “vedere” i risultati del tuo gesto.
Se vuoi fare qualcosa, puoi sostenere questa associazione, oppure puoi sostenerne un’altra. Puoi anche regalare a qualcuno Lo scorpione dorato, è un gesto significativo. Perché leggere certe storie in un romanzo è diverso dal leggerle in un articoletto di giornale o ascoltarle di sfuggita in un servizio al TG.
Claudio Santoro