La giornalista bielorussa, Premio Nobel per la Letteratura 2015 e oppositrice di Lukashenko, dà voce alle donne sovietiche della Seconda Guerra Mondiale
Svetlana Aleksievič è tornata alla ribalta delle cronache negli ultimi mesi perché, insieme a Maria Kolesnikova e a Svetlana Tikhanovskaya, è fondatrice del Consiglio di Coordinamento che in Bielorussia sta guidando l’opposizione al regime dal presidente Lukashenko. Ma Aleksievič è soprattutto giornalista e scrittrice, nonché Premio Nobel per la Letteratura nel 2015: nata nel 1948 da madre ucraina e padre bielorusso, ha coperto notizie di cronaca nazionale e internazionale per molti anni, dalla guerra in Afghanistan alla tragedia di Chernobyl (al suo libro Preghiera per Černobyl’ è ispirata la miniserie Chernobyl proposta da Netflix nel 2019).
Tra le sue opere, c’è un volume dedicato alle donne che, spesso in silenzio, invisibili ma attive, costruiscono la loro parte di storia. La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale è infatti una corposa raccolta di interviste rilasciate da donne che dovettero impegnarsi in prima persona, durante il secondo conflitto mondiale, per sopperire alle perdite causate dall’offensiva nazista: alcune presero le armi, altre diventarono cuoche, infermiere, radiotelegrafiste. “Studio la storia scomparsa, quella spesso trascurata dalla Storia, dalla Storia che è arrogante e incurante di ciò che è piccolo, di ciò che è umano”, dichiarava l’autrice nel 2017, in un’intervista a La Repubblica riportata all’inizio del volume.
Testimonianze per cambiare la Storia
Le donne che affrontarono il conflitto furono centinaia di migliaia, quelle intervistate sono qualche centinaio; Aleksievič assembla e propone al lettore le testimonianze quasi svanendo dietro di esse, lasciando che siano le parole di quelle ex giovani a ricordare le assurdità, gli orrori, talvolta il coraggio malriposto.
«Durante i primi combattimenti mi sporgo continuamente da parapetti e trincee e gli ufficiali mi strattonano, ma voglio vedere ogni cosa con i miei occhi. Una curiosità bizzarra, quasi infantile. Proprio naïf! Il comandante grida: ‘Soldato Semënova! Semënova, sei impazzita! … ’ffan… Ci resti secca!’ Questo davvero non mi entrava in testa: come potevo restare uccisa se ero appena arrivata al fronte, una novellina? Non sapevo ancora com’era ordinaria e senza pretese la morte.»
Nina Alekseevna Semënova, testimonianza raccolta da Svetlana Aleksievič in “La guerra non ha un volto di donna”, pp. 115-116
Dalle dichiarazioni filtra in realtà anche la Storia: basta unire i pezzi del mosaico, collegare luoghi e date, a volte si ha quasi la sensazione di poter contare le perdite dei battaglioni attraverso i ricordi delle infermiere che curavano le ferite ad alcuni soldati e accarezzavano per un’ultima volta le palpebre ad altri. Il tutto è redatto con uno stile che riprende meglio possibile il tono delle donne intervistate, con le loro pause ed esitazioni, ma anche la determinazione a raccontare un’esperienza di cui, fino a quel momento, nessuno aveva mai voluto sapere nulla; come fosse stata una parentesi conclusa e priva di strascichi.
Aleksievič non è mai stata pilota né carrista né tiratrice scelta, ma seguendo le guerre, o ricostruendole come in questo caso grazie al suo ruolo di giornalista, ha maturato la convinzione che, perfino nelle circostanze più ingiuste e drammatiche, non sia ad esse che bisogna fare ricorso. Libri come questo aiutano a rendere certe esperienze tragicamente universali, nella speranza (forse vana, ma necessaria) di coinvolgere le nuove generazioni e indurle a cambiare la Storia in un modo diverso. Forse perfino in Bielorussia.