La nuova vicepresidente degli Stati Uniti racconta, nell’autobiografia Le nostre verità, le principali tappe del suo percorso umano e professionale
Al momento, è nota come la prima donna Vice-Presidente degli USA. Ma prima di questo è stata anche la prima donna procuratore generale della California e la prima afro-asioamericana eletta al Senato. Ed è interessante che l’autobiografia di Kamala Harris, ora nelle librerie italiane per La Nave di Teseo, si fermi al novembre del 2016, tralasciando proprio gli ultimi quattro anni in cui, un passo alla volta, l’ambiziosa senatrice ha raggiunto il secondo gradino più alto della Casa Bianca.
L’autobiografia percorre la vita di Harris fin dall’infanzia, agli studi in giurisprudenza, al ruolo come procuratore generale della California e infine alla carriera politica. Senza mai dimenticare il ricordo e l’esempio della madre, Shyamala Gopalan, Harris descrive il suo viaggio negli USA come quello di una ragazza dalla pelle scura e figlia di immigrati, quindi una outsider, che partiva però dal privilegio di una famiglia colta e determinata, e dalla capacità di mettere a frutto quel privilegio.
Nel libro, Harris suona come la persona che siamo soliti vedere nei talk show politici e nelle sedi istituzionali: brillante e determinata, ma anche ironica, cordiale, fiduciosa. Con lo stile pacato di un Barack Obama, senza l’aggressività di una Alexandria Ocasio-Cortez. E insiste, con invidiabile senso pratico, su come la volontà di perseguire degli ideali debba andare oltre la mera protesta, e diventare propulsore per agire dove veramente si cambiano le cose.
La prima alla Casa Bianca, l’ultima di tante pioniere
Colpisce, nell’autobiografia, la spontaneità con cui Kamala Harris nomina una grande quantità di persone: amici di famiglia, colleghi, parenti, vicini di casa, conoscenti dei genitori. Di molti riconosce il contributo che hanno dato alla sua formazione, a partire dalla maestra della scuola elementare. D’altra parte, anche nei discorsi con cui ha accettato la candidatura a Vice-Presidente e con cui ha festeggiato la vittoria elettorale, Harris ha sempre fatto riferimento alle donne che, nel corso della storia, l’hanno preceduta con l’ostinazione ad occupare posti a cui non si presumeva potessero ambire.
Tutto questo è coerente con il titolo del libro: nella versione italiana è stato adattato come Le nostre verità, in lingua originale era The Truths We Hold, ovvero grossolanamente “Le verità che abbiamo”. Ma in realtà nel verbo “to hold” non c’è tanto un concetto di avere, di possesso, quanto piuttosto di qualcosa a cui si tiene, che si stringe, si abbraccia. Kamala Harris ha sempre dichiarato (ad esempio nell’acceso dibattito dello scorso ottobre con Mike Pence) di considerare il rispetto per la verità uno degli elementi fondamentali per fare della buona politica: una tesi che traspare anche dalle sue pagine.