Far saltare in aria la fortezza consolatoria del realismo, come se L’alba è un massacro, signor Krak di Thomas Tsalapatis, pubblicato in Italia per XY.it nella traduzione di Viviana Sebastio e vincitore del Premio InediTo 2018, non fosse che questo: il tentativo di radere al suolo qualsiasi strategia atta a negare il disordine contemporaneo.
Siamo nell’ambito di una scrittura che predilige la forma breve, il lampo, il cortocircuito, perché il libro dell’autore greco, nato ad Atene nel 1984, è un insieme di frammenti che sfidano le stesse leggi gravitazionali, se così possiamo definirle, della poesia e del racconto.
«Come va, signor Krak?»
Ma chi è il signor Krak e da dove è sbucato? E soprattutto: cosa ha dirci e cosa vuole da noi? Non lo sappiamo: non lo sa neanche lui – non sa neppure come sta e a chi per strada glielo chiede, non sa cosa rispondere – e sembrerebbe non saperlo nessuno. È un personaggio volutamente indefinito, il signor Krak, ma irresistibile: a volte è colto dalla malinconia e allora sale su un barile di aringhe e si mette a contemplare il cielo in cerca di qualche risposta, altre volte non riesce ad addormentarsi perché un’orda di Unni, che assalta Atene, glielo impedisce. E poco importa se, sul piano della realtà, tutto ciò accadeva secoli e secoli prima. Perché basta pensarci a una cosa, ed ecco che subito accade. Ora e qui.
Di nome e di fatto
Perché il destino del signor Krak è già nel suo nome onomatopeico. Egli è una crepa, un taglio, uno spacco. Si spezza, il signor Krak, lui che è al contempo agile e dannatamente impacciato come “una statua inattesa”. E nei frammenti del libro, a volte parla in prima persona, il signor Krak, altre volte di lui ci parla un narratore altrettanto indistinto e questo gioco mobile di continui scambi del punto di vista immette, nelle storie assurde, grottesche e surreali che ci vengono raccontate, un elemento decisivo: quello del distanziamento. Perché poi l’impressione che ne ricaviamo è che sia lo stesso signor Krak a guardarsi da fuori: ad accettare tutto ciò che gli capita, anche se non sempre vede granché. Come per esempio quella volta in cui gli è spuntato un chiodo sulla fronte e siccome nessuno sapeva cosa fare, su quel chiodo gli hanno appeso un quadro.
Noi lettori ridiamo delle strambe avventure del signor Krak, ridiamo ma pian piano ci viene anche a noi la malinconia, soprattutto quando iniziamo a intuire che quella fortezza che Tsalapatis si diverte a far saltare in aria siamo noi. È la nostra arrogante presunzione di considerarci al riparo da ogni dubbio e incertezza a essere scalfita. E come sempre dovrebbe accadere con l’arte, ecco che attraverso la breccia che essa spalanca, alla fine comprendiamo il messaggio che il signor Krak voleva recapitarci: l’inquietudine esistenziale, la disgregazione sociale nella quale viviamo, lo spaesamento. Questo non sapere niente gli uni degli altri e ignorare che viviamo tutti, come il signor Krak, in un infinito (e indefinito) presente in cui «tutti noi andiamo avanti, uomini e ombre, bucati dal tempo. Scandagliando superfici, corrompendo parole, esaminando tregue. Tutti noi, che siamo usciti dall’ombra per trovare l’oscurità».
Gianluca Minotti