Io sono l’abisso, di Donato Carrisi, è arrivato il 27 ottobre nelle sale dei cinema italiani. La pellicola è la trasposizione dell’omonimo libro, edito Longanesi, ed è stata curata personalmente dall’autore.
Si dice spesso che, nei suoi romanzi, Carrisi conduca un’indagine minuziosa sul Male, sulla sua natura e su come questo sia ormai ben radicato nell’uomo. Eppure, in Io sono l’abisso, ciò che colpisce non è la presenza del male, ma lo spazio nero del dolore.
La trama
Si può capire molto da ciò che una persona lascia indietro. Questo, l’uomo che pulisce lo sa bene: lui, attraverso i rifiuti, conosce i segreti delle persone senza essere mai visto da nessuno. È attraverso la sua lente che l’uomo dietro la porta verde guarda il mondo. Ogni cosa cambia quando l’uomo che pulisce salva la vita alla ragazzina col ciuffo viola, strappandola alle correnti del lago. È un contatto, questo, che lo metterà lungo il percorso della cacciatrice di mosche, colei che ha fatto della protezione di ogni donna la sua missione di vita. Il ritrovamento di un braccio femminile, tornato a galla dalla profondità delle acque, metterà in discussione le esistenze di tutti.
Nelle profondità dell’abisso
In un film che parla di serial killer, è strano trovare lo spazio per descrivere il dolore. Si è così abituati a confrontarsi con il male, a cercare il mostro da additare, che spesso la dimensione del dolore è una porta che non si apre: come la spazzatura, la si lascia alle spalle. Eppure, non è insolito che proprio il dolore metta in moto una serie di eventi capaci di cambiare la vita di una persona. Nel dolore, alcuni trovano la forza per risalire dall’abisso; altri, invece, si fondono con esso, scelgono di interpretare ruoli diversi pur restando nello stesso campo.
Tanto nel libro quanto nel film, Carrisi dice che il male è un cerchio. Tuttavia, proprio in Io sono l’abisso, più che il male che ritorna è da porre l’accento sul dolore che traccia i sentieri dei protagonisti, come tanti fili d’Arianna in un labirinto degli orrori, come un profumo attraverso cui alcuni, da simili, si riconoscono.
Io sono l’abisso: ritrovarsi legati
Il riconoscimento è ciò che guida l’uomo che pulisce verso la ragazzina col ciuffo viola. Un contatto non cercato e non previsto, ma qualcosa di cui lui non può fare a meno. È risaputo, d’altronde: quando si salva la vita a qualcuno se ne diventa in qualche modo responsabile. Si crea un legame, da proteggere con tutti i mezzi che si conoscono.
È forse proprio questo, il problema dell’uomo che pulisce: di mezzo per proteggere, lui, ne conosce uno soltanto. E allora, qui, la domanda è d’obbligo: quello sul male è un discorso che riguarda la natura di una persona, o soltanto ciò che fa?

La cacciatrice di mosche
In questo quadro, quello della cacciatrice di mosche sembra quasi un occhio indesiderato, fin troppo normativo. Difficile pensare a come una donna che protegge altre donne possa essere immersa nell’abisso fin quasi a perdere cognizione della propria stessa consistenza.
Per lei, definirsi è un gioco di negazioni: esiste solo attraverso ciò che non è più. È grazie a questo, però, che ha imparato a guardare l’abisso e a riconoscere le figure che lo popolano. Quel filo rosso lì, nel buio, lei l’ha trovato e ha intenzione di usarlo. Quando il dolore diventa il tuo motore personale, riemergere non è tra le opzioni.
Io sono l’abisso, la recensione
Guardare Io sono l’abisso vuol dire fare i conti con ciò che si butta via, con le persone che fa comodo credere non esistano, proprio come la spazzatura ben smaltita. È strano non pensare che quel processo di smaltimento dei rifiuti, così caro al mondo contemporaneo, è in realtà applicato da sempre tra le varie dinamiche dei rapporti umani. Ci si lascia una persona alle spalle, un evento, un dolore, senza curarsi di quel che poi potrebbe diventare. In questo, sì, il male è un cerchio: il riciclo del dolore che si trasforma in azione.