In sala dal 7 settembre e presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, Io Capitano è un film complesso e dalla tematica delicata.
Matteo Garrone lavora a quest’idea da tempo, come conferma anche in conferenza stampa. Anni passati a raccogliere materiale, a parlare con la gente, a ricostruire le rotte, a scindere i casi isolati dalla regola del viaggio dei migranti, tanto ambito e temuto.
Io capitano, il film
Matteo Garrone racconta la storia di Seydou e Moussa, due cugini senegalesi che vogliono andare in Europa per fare fortuna, per aiutare le famiglie, per diventare qualcuno. Non scappano da guerre o tormenti i due sedicenni, vogliono solo una vita migliore e si impegnano per ottenerla con la caparbietà tipica dell’adolescenza: lavorano di nascosto, risparmiano tutto e partono all’insaputa delle famiglie.
A nulla valgono i consigli di chi c’è passato, le paure materne, gli avvertimenti che la via e la vita non sono come vedono sui loro smartphone. «La gente muore, dorme per strada, fa la fame in Europa», dice ai ragazzi un compaesano tornato a casa dopo aver provato la vita da migrante. Ma a nulla servono i discorsi: loro partono, pieni di sogni e con tutti i loro risparmi. La realtà, però, prende subito il sopravvento e sbriciola i loro sogni passo dopo passo. Dalla fantasia “faremo i rapper e firmeremo gli autografi ai bianchi” loro passano all’unico scopo di restare vivi. Perché davvero per strada si muore, davvero i soldi finiscono subito, davvero i predoni e la polizia corrotta si approfittano di loro, di tutti.
Io capitano, una buona pellicola che emoziona troppo poco
Ci sono diversi modi di raccontare questa storia oggi più che mai necessaria (anche Zerocalcare ha detto la sua in un modo non banale) e Garrone sceglie il punto di vista dei ragazzi. Scelta difficile soprattutto per il rischio di cadere nella facile retorica e nel cliché dell’eroe involontario.
Nessun europeo è presente nella pellicola, nessuno li chiama migranti, non si vede nessun panorama italiano, parlano solo wolof e francese. Tutto è centrato sul viaggio fisico e interiore di Seydou e Moussa, sulla vicenda umana che li porterà a essere uomini.
Per compensare l’escalation di violenza e di fatica, il regista tratteggia con Massimo Ceccherini, Massimo Gaudioso, Andrea Tagliaferri una sceneggiatura ricca di parti oniriche e di realismo magico, sceglie inquadrature che passano dal dettaglio degli sguardi profondi e intensi dei protagonisti, densi di sofferenza ed empatia, all’immensità del deserto e del mare letali e senza fine. Non c’è un equilibrio consolante per lo spettatore, proprio come non c’è per i protagonisti.
Garrone riesce a evitare la retorica, il melenso, il tono paternalistico o moralistico, il didascalico, il cliché, il prototipo del giovane eroe idealista e senza paura. Ma proprio per evitare tutto questo si ferma un passo prima di emozionare davvero. La ricetta è talmente ben dosata da aver prodotto un buonissimo film a cui manca una cosa sola: un dettaglio che imprima nel cuore il dramma di molti. Purtroppo, nemmeno gli occhi fissi sulla terra e le labbra di Seydou che ripetono all’infinito “Io capitano” riescono in questo intento.