Giulio Mozzi ci parla del suo libro Le ripetizioni, e del suo modo di intendere l’arte e la scrittura. L’ultimo libro di Giulio Mozzi, Le ripetizioni (Marsilio), è stato proposto per il Premio Strega 2021 da Pietro Gibellini. In questa intervista l’autore ci racconta come è nata questa storia così particolare e ci svela la sua idea sulla scrittura, sull’arte figurativa e sulla sinergia che scaturisce dall’interazione fra queste due discipline, in fondo così poco dissimili.
L’intervista a Giulio Mozzi, per scoprire l’origine e i colori del suo libro
«Candido il romanzo di Mozzi per l’originalità tematica, stilistica e ideologica. A differenza di tanta narrativa che corteggia il bene astratto e la quiete consolatoria, raccontare del male e del disordine che si annida in ciascuno di noi significa indagare la nostra possibilità di redenzione e speranza.» Pietro Gibellini
Qual è la genesi di questo romanzo? La frammentazione della narrazione in piccole parti è stata creata ad arte o è nata spontaneamente?
Le prime carte scritte risalgono al 1998. Mi apparve quella che oggi è – ma è sempre stata – l’ultima pagina del libro; mi apparvero alcuni personaggi (Mario, il protagonista; Santiago; Bianca e Agnese). Feci leggere a un editor del quale avevo, e ho, molta stima un brogliaccio di circa centoventi cartelle. Mi rispose che non se la sarebbe mai sentita di pubblicare una cosa così violenta. La cosa mi fece pensare. Lasciai riposare il tutto. Nel 2002 iniziai un’altra versione, dalla quale cercai di tener fuori Santiago – che è, più o meno, il male assoluto. Entrarono altri personaggi: il Grande Artista Sconosciuto, il Capufficio, il Martellatore di Monaci.
Mi fermai. Avevo tante storie, non avevo un propulsore interno per il tutto. Misi da parte. Nel frattempo scrivevo altre cose, anche su commissione, senza rendermi conto – almeno lì per lì – che erano cose che nascevano dal medesimo immaginario del romanzo. Cominciai a rendermene conto nel 2012, quando tentai di incastrare tutta una serie di materiali. Ma non ci riuscii. Nel 2018 ricominciai a scrivere dopo una lunga pausa, inserendo ulteriori personaggi (Franco Vaccari, Viola), e comincia a intravedere una possibile struttura per il tutto. Un suggerimento decisivo per il montaggio mi arrivò da Edoardo Zambelli, lo scrittore più sottovalutato d’Italia: non seguii il suo consiglio, ma dal suo consiglio partii per immaginare finalmente una struttura. Nel 2020, in due mesi furiosi di lavoro, giugno e luglio, con Greta Bertella che leggeva e discuteva con me ogni pagina man mano che la scrivevo, arrivai a chiudere il romanzo.
Un romanzo in cui la realtà non è stabile
La struttura è necessariamente frammentaria, perché in questo romanzo la realtà non è stabile. In ogni capitolo agisce un narratore la cui natura è diversa dai narratori degli altri capitoli. Ciò che è vero in un capitolo può non esserlo in un altro. Un personaggio può essere qualcosa in un capitolo e essere tutt’altra cosa in un altro. Siamo ormai abituati all’idea che una storia può essere raccontata da diversi punti di vista; ho tentato di produrre una storia raccontata da narratori diversi, che abitano in realtà diverse.
Il trauma della finzione
Esiste un messaggio per il lettore che è stato affidato ai personaggi dei racconti?
Sinceramente: non ho mai pensato a un “messaggio” da affidare al romanzo o ai suoi personaggi. Avevo un’immaginazione, anzi un complesso di immaginazioni, e ho cercato di restituirle più esattamente che potevo. Il “messaggio”, volendo, è: è possibile immaginare storie così, cose così, personaggi così. È possibile immaginare. Ho come l’impressione che negli ultimi anni si pubblichino molti romanzi che reclamano attenzione, ed effettivamente la riscuotono, perché sono «basati su storie vere», o comunque saldamente ancorati alla realtà.
È come se la letteratura virasse verso un curioso ibrido tra “romanzo storico del presente” (o del passato prossimo, anche molto prossimo) e l’autofinzione: dove l’autore si mette in scena nel suo inseguire una storia, o un grappolo di storie, nel mondo reale. Questo approccio ha senz’altro tutta la sua dignità, tuttavia a me interessa altro: mi interessa produrre in chi legge il «trauma della finzione», come l’ha chiamato Tommaso Pincio in un intervento in Facebook. Un trauma al quale, forse, il lettore d’oggi è quasi disabituato.
Imparare a separare le suggestioni tra le arti
Come nasce la sinergia fra l’arte e la scrittura di Giulio Mozzi, e cosa ha influenzato questo lavoro in particolare?
Ma sono sempre stato un lettore di storie, un ascoltatore di musica, un guardatore di opere d’arte visiva, uno spettatore di cinema. Ed è difficile per me separare le suggestioni che vengono da questa o da quella arte. Quando avevo quattordici anni o giù di lì incappai – durante una gita scolastica – in un quadro di Savinio, uno dei tanti quadri nei quali, nella radura di una foresta – resa monocromaticamente – è steso un tappeto coperto da un mucchio di giochi di costruzione coloratissimi.
Quel quadro mi affascinò, tanto che persi di vista la mia classe e dovettero chiamarmi con gli altoparlanti interni. Quel quadro è ancora vivo dentro di me: mi ha insegnato che c’è il mondo reale – la foresta – ma dentro la foresta si può circoscrivere un luogo – la radura, il tappeto – nel quale si può liberamente costruire. Il tappeto funziona un po’ come un cerchio magico: dentro al cerchio, sopra al tappeto, si può costruire ciò che si vuole. Tanti anni fa mi fu chiesto di scrivere un testo per il catalogo di una mostra di Beatrice Pasquali, e l’incontro con le sue opere fu per me importante. Le cose che Beatrice fa con le immagini del corpo sono entrate nella mia immaginazione, talvolta nei miei sogni. E così, fatalmente, anche due testi scritti per lei – uno molto modificato per incastrarsi nella narrazione, uno pari pari – sono finiti dentro il romanzo. Perché il modo in cui il protagonista immagina sé stesso deriva anche dalle opere di Beatrice.
Una creazione autonoma dal realtà
Il quadro Discorso attorno a un sentimento nascente, di Claudio Laudani – un pittore molto appartato, ma secondo me bravissimo – ha per così dire generato una quantità di pagine del romanzo: tutte quelle in cui il protagonista, seppur confusamente, riesce a intravedere una via d’uscita dallo stallo e dall’indecisione nei quali sembra vivere. E quanto alla fotografia, la frequentazione di alcuni fotografi – in particolare di Guido Guidi – mi ha aiutato a pensarla non come un “documento”, ma come una creazione autonoma dalla realtà, in un certo senso più frontalmente opposta alla realtà che non, per dire, la pittura. (Non ho mai conosciuto, peraltro, Franco Vaccari: benché nel romanzo appaia un personaggio che porta il suo nome e il suo cognome, e ha parecchie cose – non tutte – in comune con lui).