Edito da Meltemi edizioni, il saggio è frutto di un lavoro collettivo volto ad analizzare la realtà sarda e il concetto di subalternità
Disponibile dall’11 febbraio: Filosofia de logu. Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna, saggio edito da Meltemi edizioni, ha lo scopo di analizzare aspetti legati al concetto di subalternità e dipendenza cui la Sardegna è sottoposta. Gli autori sono undici, ognuno di loro analizza un aspetto specifico spaziando dalla filosofia alla storia, dalla sociologia all’architettura. Il lavoro mira – testualmente – a “decolonizzare il pensiero e a decostruire la ragione coloniale, ossia quella visione complessiva della realtà sarda che esclude le varie forme di subalternità”.
Abbiamo chiesto a uno degli autori, Cristiano Sabino, di parlarci di questo laboratorio di filosofia culminato nella pubblicazione di Filosofia de logu.
Il saggio nasce dal progetto collettivo omonimo. Ci spieghi cosa è Filosofia de logu?
Siamo un collettivo di ricercatori e attivisti indipendenti, variegati per età, interessi disciplinari e orientamenti politici, ma uniti da un forte interesse a decostruire i meccanismi della dipendenza della Sardegna e di tutto quel sistema di mitologie che normalmente passa sotto il nome di “identità sarda”, ma che in realtà rappresenta una narrazione coloniale o post-coloniale assai nota a tutti i popoli e a tutte le realtà territoriali che hanno vissuto la tragedia della colonizzazione dei cosiddetti “Stati nazionali” d’Europa. In Sardegna non sono certo mancati intellettuali coraggiosi che hanno smascherato e aggredito i meccanismi della subalternità, contribuendo enormemente a garantire la possibilità stessa dell’esistenza di un punto di vista autonomo sulla realtà e sulla questione sarda. Insomma, non tutti gli intellettuali sardi hanno accettato acriticamente lo sguardo dell’altro, la visione imperante di una realtà sarda arretrata e bisognosa di tutele esterne.
L’ideologia della “ragion coloniale” e della marginalità
Ciò che però è sempre mancata è la capacità di fare sistema, di costruire un «intellettuale organico» al popolo sardo, capace di affrontare e dirimere tutto ciò che riguarda la questione sarda, in maniera lucida e non condizionata da quella che noi definiamo “ragion coloniale”, vale a dire l’ideologia secondo cui la Sardegna e i sardi non brillano di luce propria (come tutti gli altri popoli) e devono invece sempre essere gregari di qualche entità esterna per poter continuare a pulsare fra i popoli moderni e civili del mondo.
La forza della logica su cui si basa la “ragion coloniale” consiste nel presentarsi come un naturale dato di fatto e non come una costruzione intellettuale e teorica diventata senso comune. L’ideologia della marginalità si impone quasi naturalmente nel dibattito pubblico, attraverso una serie di dispositivi collaudati e ormai entrati in circolo a tutti i livelli della società sarda. Possiamo dire anche che la stessa opinione pubblica è un albero che affonda le radici nel terreno imbevuto di questa ideologia. Essa è in effetti la falsa coscienza di un sistema sociale e pensare di affrontarla isolatamente è del tutto velleitario.
L’importanza di creare una rete di ricerca collettiva
Serve fare rete, serve costruire un meccanismo di analisi e ricerca che sia il più collettivo e cooperativo possibile. Serve costruire nodi robusti di intellettuali che elaborano un punto di vista alternativo a quello della “Sardegna che non può farcela da sola” (giusto per citare uno dei possenti dispositivi retorici in cui si esprime la ragion coloniale), smantellando cliché e mitologie identitarie, credenze tanto radicate quanto prive di fondamento che passano però nel dibattito pubblico come dogmi e postulati scientifici indiscutibili. È la prima volta che si concretizza un progetto del genere. Siamo certamente nani sulle spalle dei giganti e i giganti sulle cui spalle noi ambiamo salire sono personaggi del calibro di Antonio Gramsci e Placido Cherchi, ma certamente anche i nani – se fanno gioco di squadra – possono aspirare a scalare vette finora inesplorate.
Nel tuo contributo analizzi il pensiero di Antonio Gramsci in riferimento alla questione del “sardismo popolare”, in particolare spieghi in cosa consiste il concetto di subalternità da lui elaborato. Perché è attuale ancora oggi?
Gramsci è diventato un riferimento prezioso per numerosi gruppi di ricerca in tutto il mondo che analizzano e decostruiscono i meccanismi della subalternità coloniale o post-coloniale. I Post-colonials studies indiani ne sono un esempio, ma ciò ormai vale per l’America latina, il Medio Oriente, l’Africa e tutti quei luoghi dove i subalterni sentono il bisogno di elaborare strumenti intellettuali – quindi politici – autonomi e autogovernati. C’è un passo nei Quaderni del Carcere dove Gramsci mette in guardia sul fatto che i subalterni rimangono spesso tali anche quando si ribellano. Da ciò Gramsci ricava che ogni traccia di autonomia intellettuale dei subalterni va valorizzata perché è preziosissima.
Le meccaniche che portano i subalterni a ragionare con la testa di chi li domina
Questo ci porta a due prime scoperte. La prima è che non basta alzare la testa contro un’ingiustizia o un torto per smettere di essere subalterni. Faccio un esempio: il Medio Evo è pieno di incredibili e vastissime rivolte contadine. Ma i contadini ribelli e i loro capi, alla fine non riuscivano a elaborare una visione del mondo autonoma (non subalterna appunto) e spesso identificavano i mali che li affliggevano con funzionari corrotti e non li individuavano nei meccanismi della monarchia feudale. Da questo punto di vista Gramsci può esserci assai utile, perché studia in profondità i dispositivi della subalternità e analizza con cura tutte le meccaniche che portano i subalterni a ragionare con la testa dei dominanti, perfino nei frangenti in cui essi si ribellano. La seconda scoperta riguarda il carattere organicamente subalterno di molti intellettuali sardi, a partire da quelli che ostentano posizioni progressiste o di critica radicale all’esistente. Gli intellettuali – e paradossalmente gli interpreti e i cultori di Gramsci non fanno eccezione – in Sardegna spesso non fanno parte della soluzione ma del problema, dal momento che costruiscono la rete intellettuale in cui incappano i subalterni. Possiamo trovare un esempio di questo meccanismo nella lotta di classe nel contesto della società sarda dal Piano Rinascita fino agli inizi degli anni Duemila. Gli operai sardi si ribellavano, spesso assumendo forme radicali di protesta (occupazioni, manifestazioni conflittuali, scioperi prolungati), ma la cornice teorica entro cui avvenivano questi scioperi alimentava e non smantellava il paradigma di una modernità indotta e calata dall’alto, in cui la Sardegna e i sardi, nella migliore delle ipotesi, avrebbero potuto tirare su il prezzo della devastazione e del saccheggio della loro terra e della rapida dissoluzione delle loro comunità, ma non arrestarne il percorso. Tutto questo mentre in diverse parti del mondo avanzavano processi anche assai avanzati di decolonizzazione e critica alla subalternità coloniale e postcoloniale. In pochi si sono sottratti al dispositivo di subalternità e minorizzazione e una eccezione è costituita dal secco «No» della comunità di Lula al polo industriale che poi infatti sorse a Ottana. Abbiamo insomma perso qualche treno!
Gli strumenti di analisi offerti da Antonio Gramsci
Gramsci ci fornisce tutti gli strumenti per decostruire queste e altre vicende e il blocco concettuale e teorico che ha rappresentato per decenni la Sardegna – fino ai giorni nostri – come una landa desolata e bisognosa di tutele per poter rientrare nel consesso civile e i sardi come un’accozzaglia di barbari privi di storia, cultura, idee, prospettive, progettualità e bisognosi di ricevere semilavorati ideologici dalle generose mani dei continentali di turno.
L’obiettivo dichiarato del saggio è quello di “abbattere stereotipi, luoghi comuni o narrazioni improprie che ledono il diritto di pensarsi normalmente sardi”. Cosa impedisce ai sardi di avere una visione oggettiva e dignitosa del loro essere?
Formalmente nulla. Un sardo può nascere, crescere, andare a scuola, formarsi (se benestante magari in una prestigiosa università in Italia o all’estero), trovare lavoro, affermarsi come persona e come professionista e condurre una vita dignitosa e libera. Poi, talvolta, tornare a casa, visitare i luoghi della propria giovinezza, restare legato al proprio territorio, farsi mandare i pacchi del cibo identitario da casa e sentirsi sardo per tutta la vita, magari trasmettendo questo legame anche a figli e nipoti. Certo, non tutti possono trovare questa exit strategy, la maggior parte dei sardi vive la condizione di subalternità come una condanna individuale, dettata da questioni naturali (come l’insularità) o da fatalità impersonali e prive di causa (come la chiusura di una fabbrica, il fallimento di un’azienda, la perdita del lavoro). Il fatto è che – in entrambi i casi – non esiste un patrimonio di idee e di categorie utile a pensare (quindi a criticare) le condizionalità che il sistema di subalternità impone a ogni singolo sardo. Non esiste perché finora non è esistita una leva di intellettuali (e collateralmente di forze politiche) capaci di rendere solida una visione alternativa della Sardegna e dei sardi, una prospettiva non ipostatica, non fatalista, non subalterna, non imprigionata nel pantano dell’«è così».
Modernità e subalternità: un rapporto paradossale
L’opzione che le cose possano essere cambiate, anche radicalmente, è forse la forma di libertà più grande che la modernità ha dischiuso alle menti delle persone. Il paradosso però è che la modernità è sbarcata in Sardegna proprio sulla scorta dell’accettazione dogmatica delle condizioni della subalternità. Il modello della modernità si è dato nella forma del «prendere o lasciare» e la maggioranza degli intellettuali ha sostenuto le ragioni del «prendere». Il risultato di questo vero e proprio processo di colonizzazione ha messo capo alla demolizione di tutte quelle modalità di essere dei sardi che, in un modo o nell’altro, cozzavano con l’egemonia del modello moderno e con la sopravvivenza subalterna o folklorica di tutte le altre.
Il processo silente di demolizione e assimilazione
Ecco perché un sardo pensa se stesso nei termini della sfortuna, dell’aridità, della povertà, dell’isolamento e nello stesso tempo dell’orgoglio, della fierezza, della bellezza dei suoi mari e della bontà dei suoi cibi. La svalutazione e la valorizzazione delle modalità di essere fanno parte di un medesimo processo di demolizione e assimilazione. È un processo silente, praticamente inconscio, ma potentissimo e ramificato: tutto ciò che non risulta compatibile con la funzione subalterna viene smantellato, marginalizzato e annichilito (come per esempio l’uso veicolare della lingua sarda); tutto ciò che invece risulta compatibile viene mummificato, fissato, congelato a corredo della funzione subalterna (come per esempio avviene per il carnevale estivo, per i cibi a cui viene cambiato il nome, per le feste popolari). In tutto questo il diritto di pensarsi normalmente dei sardi è completamente annichilito, perché il pensiero è inibito dalla condizionalità della subalternità. Voglio parlare sardo? Meglio imparare l’inglese! Voglio oppormi a una mega discarica o a un parco eolico su un monte di sughereti? Non è possibile, non si può essere sempre egoisti. Voglio mettere in discussione la più che invasiva presenza di poligoni militari? Non si può perché la difesa rientra nell’interesse nazionale. Voglio inserire la storia sarda nei programmi scolastici? Magari, peccato che bisogna finire il programma e quindi non si può. Gli esempi sono infiniti. Alla base di tutti sta un limitatore automatico del pensiero, una sorta di dispositivo che scatta ogni qualvolta un sardo provi a varcare la soglia entro cui la loro libertà vigilata di pensare e concepire è consentita.
Quale filosofia, quale pensiero critico emerge come necessario per capire i caratteri propri della società sarda e della sua dipendenza?
Non esiste una risposta univoca a questa domanda e infatti all’interno del collettivo sono presenti sensibilità diverse e orientamenti teorici differenti. Sicuramente ci accumuna la vicinanza a una lettura non scolastica di Gramsci che poi è quella lettura che ha permesso al pensatore sardo di essere conosciuto in tutto il mondo, al di là della lettura chiesastica che ne hanno dato il Pci e gli intellettuali a esso organici e che ancora ne danno molti interpreti sardi e italiani. Più in generale aderiamo a una concezione del pensiero e della ricerca situati. Questo significa che secondo noi il pensiero deve ovviamente scandagliare la globalità e allargarsi a indagare la generalità, ma se non mette radici o – peggio – se mette radici eteronome e straniere, anche il più critico e dirompente dei modelli ragionativi rattrappisce velocemente, sterilizzandosi e riproducendo dinamiche intellettuali subalterne e teorie della minorità. È ciò che è accaduto, per esempio, al marxismo che, in Sardegna, è stata prevalentemente la teoria della modernizzazione indotta, della subalternità alle logiche coloniali, della spoliazione linguistica e culturale e infine dell’esaltazione della ragion di Stato.
L’importanza di contestualizzare il pensiero critico
Il pensiero critico, a nostro modesto avviso, deve essere un pensiero situato e contestualizzato, non un ennesimo pensiero in franchising. Ecco perché ci interessa moltissimo il concetto gramsciano di “traduzione”, mediante cui una categoria o un metodo di ricerca può attraversare diversi spazi situati senza importi come un’ennesima fredda funzione subalterna.