L’autore di Underworld e Rumore bianco sceglie un implicito punto debole dell’esistenza umana nel XXI secolo: e lo annulla per trarne una presa di consapevolezza
Di questo libro, la prima cosa che balza all’occhio – e dispiace ammettere la superficialità dell’osservazione – è il piccolo formato: 12.2 x 1.4 x 18.5 centimetri, per un totale di 112 pagine e un peso di 180 grammi. Un libro nato dalla stessa penna dell’uomo che, fra i tanti romanzi, ha scritto anche il ciclopico Underworld, per la bellezza di 886 pagine, o il celebratissimo Rumore bianco (National Book Award 1985), che ne conta “appena” 357. Eppure, alla mole ridotta del volume, corrisponde un’idea tanto elementare quanto dirompente: che cosa succederebbe, se di punto in bianco la tecnologia smettesse di funzionare?
Se Il silenzio fosse un romanzo distopico d’avventura, assisteremmo a scene disastrose: comunicazioni interrotte, aerei in caduta libera, sale operatorie al buio, folle riversate nelle strade. DeLillo invece, da esponente del postmodernismo qual è, quindi da critico inclemente delle ideologie, dei sistemi di valori costituiti e dei condizionamenti culturali, preferisce concentrarsi sulle reazioni più intime, più personali. Sembra quasi di assistere alla prima fase dell’elaborazione di un lutto, la fase della negazione, che vuole prolungarsi all’infinito, un’ipotesi dietro l’altra, un sospetto dietro l’altro. E mentre ogni tentativo di razionalizzazione cade nel vuoto, e gli sguardi tornano agli schermi spenti, neri, muti, dal silenzio e dall’oscurità emergono scintille di consapevolezza, momenti di riflessione che colgono, per qualche attimo, sprazzi di significato fino a quel momento ignoti.
Un romanzo sottile, un’apocalisse muta
Il primo romanzo di DeLillo risale a esattamente 50 anni fa: si intitola Americana (1971), la storia di un manager di successo che, angosciato da una sorta di male di vivere, si trasforma in regista indipendente per riprendere l’America vera, quella lontana dai self-made-man e dai grattacieli di Manhattan. «Sono stato fortunato» racconta l’autore in un’intervista al Guardian, «il primo editore che lo ha letto ha deciso di pubblicarlo. E da allora la fortuna non mi ha mai abbandonato.» Magari è stata qualcosa in più di semplice fortuna, difficile che la sorte continui a essere benevola per 50 anni filati. La nuda verità è che nei testi di DeLillo c’è da un lato una prosa elegante senza essere pretenziosa, anzi interrotta talvolta da passaggi talmente schietti che viene da pensare (sbagliando) “potevo scriverlo anche io”; dall’altro, un acume particolare nel leggere, individuare e riferire aspetti del singolo e della società che tutti abbiamo sotto gli occhi ma non riconosciamo con la stessa arguzia.
Quell’arguzia attraversa tutti i suoi romanzi, come un bisturi con cui affondare nel pensiero e nelle emozioni dei personaggi che abitano le storie, talvolta in una mescolanza di generi che spiazza il lettore: dalla distopia alla saga familiare, dalla critica sociale al thriller. Il silenzio (inteso sia come assenza di rumore, sia come titolo del romanzo) costringe a riflettere e a farsi domande, di conseguenza a cambiare e a non essere più gli stessi di prima. Girarsi in continuazione, per controllare gli schermi neri, non funziona più.