Due donne molto diverse sono protagoniste di un romanzo che mette in scena un ospedale psichiatrico parigino di fine Ottocento, fra convenzioni borghesi e aneliti di libertà
Parigi, 1885: i destini di tante donne, e di due in particolare, si incrociano alla Salpêtrière, luogo di cura ma soprattutto di prigionia. Fra le sue mura vengono rinchiuse non solo donne a cui sono stati diagnosticati disturbi psichici più o meno gravi, ma anche semplicemente donne che mal si adattano ai rigori della società parigina dell’epoca o che addirittura, nei confronti di quella società, manifestano istinti di ribellione. Spesso si tratta di ragazze i cui disturbi sono stati catalizzati da violenze e maltrattamenti, e che all’interno della Salpêtrière ricostruiscono un vivere sociale monotono, scandito dalle incombenze quotidiane come i pasti e le medicine, e da quelle settimanali come le visite mediche. Neurologi come il celebre dottor Charcot, personaggio realmente esistito, sperimentano nuove cure e fanno progressi nel campo della neurologia, ma le internate sono poco più che cavie, per le quali nessuno prova la minima empatia. Una volta l’anno, solo una, esse tornano a contatto con la società “normale”: quando alla Salpêtrière viene organizzato il cosiddetto ballo di mezza Quaresima, a cui nobilotti e borghesi possono intervenire (rigorosamente su invito) per osservare la fauna umana di cui sono tanto curiosi.
Per quei borghesi, affascinati dalle malattie mentali che hanno l’occasione di vedere da vicino una volta l’anno, quel ballo vale più di tutti gli spettacoli teatrali e le serate mondane a cui intervengono di solito. Per lo spazio di una sera la Salpêtrière fa incontrare due mondi, due classi che senza quel pretesto non avrebbero motivo né voglia di incontrarsi.
Victoria Mas, “Il ballo delle pazze”, p. 99
Una storia interessante, penalizzata da un femminismo didascalico
Protagoniste del romanzo sono la capo-infermiera Geneviève, che lavora da anni alla Salpêtrière e che ha seppellito le sue emozioni sotto una coltre di freddezza ed efficienza, e la diciannovenne Eugénie, che fin da bambina nasconde alla sua famiglia un dono (o una maledizione) di cui è portatrice: saper comunicare con i defunti. Le vicende che porteranno a contatto le due donne si intersecheranno con i preparativi per il ballo e condurranno soprattutto Geneviève a rivedere i pilastri su cui aveva basato la sua esistenza. Sullo sfondo, si muovono altre donne come la giovane Louise, che sogna la fama (offrendosi per gli esperimenti pubblici di ipnosi effettuati dal dottor Charcot) e l’amore di un infermiere che la corteggia, e l’anziana Therése, che ormai considera l’ospedale psichiatrico la sua casa e non vorrebbe più allontanarsene nemmeno se potesse, tanta è la paura di tornare a contatto con il mondo reale che l’aveva ferita.
La storia di queste donne vittime e prigioniere di una società spietata è interessante, lungo la lettura ci si preoccupa per l’una o per l’altra, si desidera sapere se e come risolveranno i rispettivi dilemmi. Sia Eugénie che soprattutto Geneviève sono personaggi con una ragion d’essere. Dove la lettura si fa più faticosa è quando l’autrice inserisce a forza il suo sguardo, quello di una donna del ventunesimo secolo che contesta le convenzioni sociali di fine Ottocento, posizione ovviamente legittima ma esplicitata anche in situazioni che descrivono bene da sole il contrasto fra il potere maschile e lo stato di sudditanza delle donne: nelle famiglie, nell’ospedale, nelle istituzioni. Anche in altri contesti, la voce dell’autrice tende a raccontare pensieri e stati d’animo che le gesta e i dialoghi dei personaggi comunicano a sufficienza, senza bisogno di appendici didascaliche. Chi legge non può che sentirsi solidale con Eugénie e Geneviève, tranne forse in quei momenti in cui il testo sembra esigere questa solidarietà, invece di lasciarla emergere con naturalezza.