In cosa consiste la genialità di Kubrick? Lo abbiamo chiesto al giornalista Mauro Porcu, esperto di cinema e direttore del museo Casa Manno di Alghero
Autore di veri e propri cult, Stanley Kubrick è stato in grado di realizzare opere riuscitissime in più campi, passando dalla fantascienza di 2001: Odissea nello spazio al dramma fantapolitico di Arancia meccanica, all’horror di Shining. Il 7 marzo del 1999 il regista moriva a causa di un infarto, a 71 anni. Abbiamo chiesto a Mauro Porcu, direttore del museo Casa Manno di Alghero nonché giornalista esperto di cinema, di farci scoprire meglio i motivi che hanno consacrato Stanley Kubrick nel mondo del cinema.
In cosa Kubrick è riuscito a essere veramente innovativo?
Credo sia utile iniziare a rispondere con un consiglio di lettura: alla prima occasione utile prendetevi del tempo per passeggiare fino alla vostra libreria di fiducia e comprate, o ordinate, Non ho risposte semplici edito dalla Minimum Fax. Si tratta di una raccolta di interviste rilasciate da Stanley Kubrick nel corso della carriera che contengono tutta la sua filosofia, le sue ossessioni, la ricerca instancabile di nuove sfide e stimoli, il suo percorso teso costantemente al raggiungimento, per quanto possibile, della perfezione, il progetto mai andato in porto del Napoleon… Siamo, per intenderci, dalle parti di Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut, ossia letture essenziali per chiunque ami il cinema. Consiglio questo libro perché è lo spaccato sulla mente di un genio rinascimentale nato, fortunatamente per noi, nel ‘900 che è stato uno dei massimi esponenti, se non il più grande in assoluto, della principale forma d’arte del secolo scorso.
Tempo fa sono rimasto molto colpito dal messaggio finale contenuto nei titoli di coda del blockbuster X-Men – Apocalisse di Bryan Singer, in cui si sottolineava come alla realizzazione del film avessero contribuito, dagli attori al cast tecnico agli addetti del catering, oltre quindicimila persone. Quindicimila. Un numero impressionante di maestranze. Il cinema è un’impresa collettiva e lo era anche per un noto maniaco del controllo come Kubrick che però si fidava dei propri collaboratori, professionisti eccezionali selezionati con cura. Kubrick è stato un innovatore perché sapeva utilizzare al massimo del loro potenziale tutti gli strumenti a disposizione: la sua ricerca costante della perfezione spingeva chiunque fosse coinvolto nei suoi progetti ad andare ben oltre i propri limiti e i limiti tecnici dell’epoca. Penso in particolar modo a 2001: Odissea nello spazio, realizzato un anno prima dello sbarco sulla luna, che stabilì alla sua uscita nuovi standard in particolar modo nel design e nell’effettistica e che, incredibile per un film del 1968, non sente minimamente il peso del tempo. Di quali altri film coevi si può dire lo stesso? Inoltre bisognerà aspettare Ex Machina, del 2014, per vedere in scena uno scontro altrettanto interessante tra intelligenza umana e artificiale.
Qual è il lascito maggiore di Kubrick nel cinema?
La sua intelligenza distillata in film immortali, anche se forse è una risposta troppo ovvia. D’altra parte parliamo di un regista che ha raggiunto o sfiorato l’eccellenza in ogni genere affrontato, che si trattasse di fantascienza, di film storici in costume, di horror psicologici o di guerra. Spesso mi capita di guardare film a loro modo ottimi e di pensare “questo lo ha già detto Kubrick, e meglio”: è il caso ad esempio di Jarhead di un grande regista come Sam Mandes, una meraviglia per gli occhi grazie soprattutto alla fotografia di un altro genio totale come Roger Deakins. La parte iniziale di addestramento, indottrinamento e spersonalizzazione delle reclute semplicemente sparisce, se confrontata con il Sergente Maggiore Hartman di Full Metal Jacket.
A questo proposito, volendo rispondere più nel dettaglio circa il suo lascito, da obiettore di coscienza mi piace ricordare come Kubrick sia, tra le altre cose, anche l’autore di tre film che costituiscono una sorta di manifesto cinematografico antimilitarista: FMJ, Il dottor Stranamore. Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba e soprattutto Orizzonti di gloria.
La misantropia di Kubrick è stata ampiamente sovradimensionata, fa parte di una serie di leggende metropolitane che lui stesso ha fatto fatica a confutare quando era ancora in vita. Kubrick aveva ammirazione e rispetto per gli esseri umani capaci di usare al meglio la propria intelligenza e il proprio potenziale creativo e costruttivo, ma era anche perfettamente consapevole della profonda e radicale ambivalenza della nostra specie, che può essere al contempo bestialmente e ciecamente autodistruttiva. In questi tre film lo esplicita e lo mette in scena con la lucidità del gigante che era. E il finale di Orizzonti di gloria è uno dei più struggenti mai realizzati. Vale un saggio di Marco Aime: andrebbe proiettato nelle scuole per capire il rapporto tra noi e chi ci impongono di considerare, a torto, gli altri da noi.
In Arancia meccanica, Kubrick raccontava un futuro prossimo di violenza in cui una banda criminale – Drughi – semina terrore nella città di Londra. Il film è del 1971, eppure potrebbe essere stato girato oggi. Cosa rende l’opera cinematografica del regista americano così attuale?
A proposito di Arancia meccanica, Kubrick avrebbe sicuramente apprezzato il saggio L’epoca delle passioni tristi di Miguel Benasayag e Gérard Schmit: quel film gli causò non pochi problemi, ma come spesso accade alle opere dei visionari non solo è riuscito a raccontare parte del suo presente ma anche a preconizzare cose che sarebbero arrivate molto dopo.
Io direi che il suo cinema è tremendamente attuale per il combinato disposto di due fattori: la cura fino al più piccolo dettaglio e la libertà. Mi spiego meglio…
Per la trasposizione cinematografica del libro di Burgess, Kubrick aveva bisogno di una cornice visivamente potente: da lì sentiva di dover partire, dal contesto urbano e suburbano della storia. Perciò pensò che la soluzione migliore fosse procurarsi DIECI ANNI di arretrati delle tre principali riviste di architettura britanniche da sfogliare alla ricerca delle location adatte a mettere in scena le scorribande di Alex e dei Drughi.
Solo con questo livello di cura maniacale si può raggiungere un certo risultato, che nel suo caso coincideva quasi sempre con vertici cinematografici sublimi regalando al contempo, collateralmente, l’immortalità artistica di chiunque avesse partecipato ai suoi film.
E spesso tutta questa cura passa in sottotraccia, benché contribuisca a lasciarci senza fiato durante la visione: nel marzo del 2017 abbiamo ospitato a Casa Manno la conferenza “Stanley Kubrick e il Settecento Europeo – L’evocazione pittorica di Barry Lyndon”, a cura della storica dell’arte, giornalista ed esperta di comunicazione Michela Pibiri (un’intelligenza che solamente qui in Sardegna potevamo evidentemente permetterci il lusso di sprecare) e la quantità di opere d’arte citate più o meno esplicitamente nel film è straordinaria, al netto della fotografia mirabilante ottenuta solo con luce naturale.
E veniamo alla libertà.
Stanley Kubrick non era affatto un ingenuo, sapeva perfettamente come funzionavano gli ingranaggi dell’industria cinematografica e che un film, per quanto artisticamente “integro” e ambizioso doveva rispondere a certe aspettative, rientrare nei costi e possibilmente generare profitti. Però lui ha imposto da subito il suo status e la sua credibilità crescente per guadagnarsi quella libertà senza riserve che lo ha contraddistinto lungo tutta la carriera. Questa libertà riguardava essenzialmente il pieno controllo dei suoi progetti, in particolar modo del montaggio finale, cosa non scontata nell’industria: nelle sale veniva proiettato solo e unicamente il prodotto che aveva prima immaginato e poi realizzato, senza intromissioni esterne. Kubrick non avrebbe mai permesso un finale alternativo come quello imposto dai produttori al Blade Runner di Ridley Scott, ad esempio. Perché il suo cinema non contemplava compromessi, nemmeno con le aspettative di chi finanziava i suoi film o pagava il biglietto al botteghino.
Il risultato è un cinema nato per intrattenere e far pensare, non per blandire il pubblico o cavalcare mode temporanee. Per questo è e sarà sempre senza tempo: come Cent’anni di solitudine di Márquez, o la maschera funeraria di Tutankhamon, o la decollazione di San Giovanni Battista di Caravaggio, o l’intro di chitarra di David Gilmour in Shine on You Crazy Diamond, la sua arte continuerà a incantare, ispirare e riempire di stimoli la vita di chiunque abbia sensibilità per la bellezza, la creatività e l’intelligenza della nostra specie al suo meglio.