Uscito dal teatro parigino dove aveva assistito a Vie de bohème di Henri Murger, Puccini già ammaliato da Mimì, pensa come renderla immortale. Il 1 febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino debutta La bohème, diretta da Arturo Toscanini
La tragica vita di Lucille detta Mimì, morta a 24 anni di tisi, fa piangere il pubblico da 125 anni. Se oggi fa riflettere sulle condizioni in cui viveva la popolazione, all’epoca quel tipo di esistenza ai limiti della sopravvivenza era parte della cronaca quotidiana. Infatti La bohème non è altro che la resa operistica di uno spaccato sociale che Murger viveva, resa però straordinaria da Puccini e dai librettisti Giacosa e Illica.
“Tutti matti i musici Puccini, i vivi e i morti”
“Tutti matti i musici Puccini, i vivi e i morti”, afferma la madre di Giacomo, vedova con sette figli da mantenere. Il fato perseguita la famiglia da generazioni e gli uomini muoiono tutti giovani, per incidenti o vittime dei propri fallimenti. Accanto a lei un esercito di donne cresce il compositore e suo fratello: la nonna avara e inflessibile, la zia “nera” energica e mascolina, la zia “rossa” anacronistica e seducente e le cinque sorelle del compositore, dalla prima tagliente e cinica, alla minore futura suora.
Essere accompagnato per tutta la vita da donne lo rende da un lato il centro di un amore ossessivo e pieno di tabù forieri di sensi di colpa, dall’altro una “bestia, birbante, maschilista, uomo da bettola e da bordello”. L’esistenza stessa di Puccini è una dicotomia continua: è insieme sia signore elegante, raffinato, amante del moderno, del lusso e dell’avventura, che un semi-illetterato che compone versi banali e poesiole scurrili e sgrammaticate che fanno inorridire Illica e Giacosa, ma anche un despota che sa pretendere il meglio dai suoi librettisti, i migliori del tempo.
Sono nevrotico, isterico, linfatico, degenerato, malfattoide, erotico, musico-poetico.
(Giacomo Puccini)
La ricerca della felicità
“La vita cambia in fretta. La vita cambia in un istante” scrive Joan Didion, che la morte l’ha conosciuta bene; questo vale per qualunque altra cronaca di una vita che si spegne, a maggior ragione per un’opera tragica.
Tutti i contasti che animano Puccini, uniti al senso di colpa e al vizio, gli danno quella sensibilità che sublima nelle sue eroine, che pagano con la morte la loro vita e i loro amori ‘colpevoli’. Tutte le sue protagoniste saranno, come lui, vulnerabili e insicure, malinconiche, malate di solitudine e d’amore.
Però c’è di più, molto più di questo nelle sue donne. Al contrario di ciò che scrive in certe lettere, in cui appare cinico e calcolatore deus ex machina, Puccini ama tutte le sue femmine tragiche, imprevedibili peccatrici senza malizia, spiriti liberi che si danno in maniera totalizzante e con abbandono, anche se sono consapevoli di essere destinate a rimanere sole, perdute e abbandonate, a maledire la loro bellezza e il loro cuore innamorato.
A riprova di quanto di puccianiano ci sia nelle sue protagoniste, abbiamo la descrizione che della originaria Mimì fa Murger. Lucille è una donna tutt’altro che adorabile, ama Rodolphe ma lo tradisce in continuazione.
I suoi lineamenti, di grande finezza e dolcemente illuminati da due occhi limpidi e azzurri, in certi momenti di fastidio o d’irritazione prendevano un aspetto di brutalità quasi selvaggia; nel che un fisiologo avrebbe forse ravvisato indizi di perfido egoismo o di grande insensibilità.
(da Vie de bohème di Henri Murger)
È solo l’amore che le tributa Giacomo Puccini a trasformarla da figurante della vita quotidiana che prova ogni mezzo per sopravvivere, a vero ideale tragico. Mimì, insieme a Manon e alle altre, diventa il simbolo della ricerca della felicità e della bellezza di una vita vissuta appieno, un ideale bohèm. Il suo cuore e la sua passionalità sono l’autentica molla teatrale e narrativa dell’opera.
“Mimì deve morire”
Nonostante l’epoca della composizione e la necessità portino Puccini a condannarle quasi sempre a morte, egli parteggia per le sue protagoniste. Mimì è una donna libera, che ama chi vuole e decide per sé. A piegarla non sono le conseguenze della sua vita dissoluta, ma la malattia e il contesto di degrado sociale in cui vive. È solo per allungarsi la vita che decide di ricorrere ai mezzi che una società maschile e maschilista concede alle donne: va dal viscontino, che le può garantirle cure e riparo.
Mimì, fino a quel momento, vive in contrasto con il sistema consolidato che la vorrebbe donna fedele, pia e devota alla famiglia. Quello stesso sistema che si rifà su di lei, donna forte e fragile al tempo stesso, e pretende il suo sacrificio, tanto voluto dagli schemi punitivi dell’epoca.
La bohème, che ama con sincerità assoluta e imbarazzante, non riesce a mettere in crisi lo status quo, tuttavia, alla fine si concede la gloria di un ultimo gesto davvero rivoluzionario: sceglie la persona accanto a cui morire, quella che ha sempre amato.
Mimì deve morire, non in forza di un processo drammatico, ma solo in quanto allegoria d’una giovinezza che non può evolversi se non nella memoria. La fioraia Mimì, dalla bellezza esangue, rappresenta la trasfigurazione delle passioni indelebili dell’animo umano, la fugacità della giovinezza, delle illusioni e degli amori senza tempo. Mimì è il ricovero emozionale, poesia autentica delle piccole umili cose e dei giganteschi sentimenti che non hanno età…
(Fedele D’Amico)