La poesia italiana del Novecento è un mistero per tante persone: a scuola viene trattata poco, il contesto culturale non aiuta. Giorgio Caproni ne è un esempio illustre
Esame di maturità 2017, prova scritta di italiano, tema di letteratura. Ammesso che fosse stato scelto qualche autore del Novecento, i maturandi si aspettavano uno dei soliti noti: Quasimodo, Saba, Ungaretti, Montale. E invece: Giorgio Caproni. Uno che lo studente medio ricorda sì e no di aver intravisto nell’indice dell’antologia senza sapere che, insieme a Luzi, Zanzotto, Sereni e altri, Caproni ha contribuito a una poesia italiana del Novecento dolente, fatta di dubbi e smarrimenti profondi, quelli che solo un secolo segnato da due conflitti mondiali può far sorgere nell’animo delle persone.
Caproni era nato a Livorno nel 1912, ma la sua famiglia si trasferì a Genova quando lui aveva dieci anni. Dopo gli studi andò a vivere a Roma e pubblicò le sue prime raccolte di poesie (quelle che nel 1956 sarebbero poi confluite nella raccolta cumulativa Il passaggio di Enea), molte delle quali riguardavano proprio Genova, Livorno, la famiglia e il tema del viaggio, che contiene dentro di sé più metafore di quante se ne possano immaginare. In tempo di guerra si unì alla Resistenza, e tornato alla vita civile fu insegnante di scuola elementare, critico letterario e traduttore, soprattutto dal francese: Proust, Apollinaire, Céline, Char, Frénaud, Gênet. Morì a Roma nel 1990. La sua rilevanza nel panorama poetico italiano novecentesco non fu immediatamente individuata, Caproni non ricevette riconoscimenti emblematici come il Premio Nobel, attribuito invece a Montale, ma la sua poesia è intensa, vibrante, ricca. Solo che in pochi lo sanno.

La ricerca impossibile di parole per dire la vita
A dirla tutta, secondo alcuni la poesia nemmeno andrebbe studiata, perché farne oggetto di studio e di analisi romperebbe quell’incanto che dovrebbe avvolgerla. In realtà, come per tutte le arti, la capacità di inserire autori e opere in un contesto storico, sociale e culturale va a tutto vantaggio della comprensione, senza nulla togliere all’emozione. Caproni, per esempio, non si tirava indietro se gli veniva chiesto di parlare del suo lavoro, di dove raccoglieva ispirazione. Come quando lo invitarono a raccontare qualcosa sulla raccolta di poesie giovanili Il passaggio di Enea:
Penso che Genova sia l’unica città che abbia un monumento a Enea. Nemmeno a farlo apposta, si trova nella piazza più bombardata della città, che è Piazza Bandiera. E mi colpì quest’uomo, questo Enea, con Anchise. È una statua banale, una rappresentazione scolastica… eppure io vidi in Enea non la solita figura virgiliana, ma la condizione dell’uomo contemporaneo della mia generazione: solo nella guerra, ha sulle spalle un passato che crolla da tutte le parti e che lui deve sostenere, e tiene per mano un avvenire che ancora non si regge sulle gambe. Un uomo solo, vedovo, rimasto così: senza una speranza, senza una tradizione.
Giorgio Caproni, in un’intervista televisiva
La solitudine, il sentirsi smarriti in mezzo a un mondo incomprensibile e incomunicabile, la mancanza di punti di riferimento che diano una direzione e un orizzonte, sono temi cari a Caproni, che sente la difficoltà, quasi l’impossibilità di usare le parole – seppure le parole della poesia, in cui si possono infondere vasti significati – per narrare proprio la condizione perduta dell’essere umano. Già nelle poesie giovanili infondeva la malinconia di chi vuole esprimere le contraddizioni del reale:
Marzo
Dopo la pioggia la terra
è un frutto appena sbucciato.
Il fiato del fieno bagnato
è più acre ma ride il sole
bianco sui prati di marzo
a una fanciulla che apre la finestra.
(1932)
Procedendo con la sua ricerca poetica, attraverso raccolte come Il seme del piangere (1959), Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1966) o Il muro della terra (1975), avrebbe sempre più avvertito questa intraducibilità e, forse, il rimpianto di aver lavorato e giocato così tanto con le parole (soprattutto agli inizi si serviva di strumenti poetici di lunga tradizione come endecasillabi, sonetti, rime) da perdere il contatto con la realtà della vita. È questo, forse, il motivo per cui i suoi versi si fanno più spezzati, aspri, mentre lungo gli anni torna in modo quasi ossessivo sul tema del viaggio (verso la morte? verso Dio? e se fosse morto anche Dio?) e sul “vuoto delle parole”.
E se in un contesto culturale arido come quello che c’è ora in Italia non c’è posto – né a scuola né altrove – per un poeta che cerca disperatamente di trovare un senso e di saperlo esprimere, forse la verità è che Caproni non ce lo meritiamo.
Dopo la notizia
Il vento… È rimasto il vento.
Un vento lasco, raso terra, e il foglio
(quel foglio di giornale) che il vento
muove su e giù sul grigio
dell’asfalto. Il vento
e nient’altro. Nemmeno
il cane di nessuno, che al vespro
sgusciava anche lui in chiesa
in questua d’un padrone. Nemmeno,
su quel tornante alto
sopra il ghiareto, lo scemo
che ogni volta correva
incontro alla corriera, a aspettare
– diceva – se stesso, andato
a comprar senno. Il vento
e il grigio delle saracinesche
abbassate. Il grigio
del vento sull’asfalto. E il vuoto.
Il vuoto di quel foglio nel vento
analfabeta. Un vento
lasco e svogliato – un soffio
senz’anima, morto.
Nient’altro. Nemmeno lo sconforto.
Il vento e nient’altro. Un vento
spopolato. Quel vento,
là dove agostinianamente
più non cade tempo.
(1975)
