“Per l’Italia nessuno”. Lo affermò Indro Montanelli spiazzando il pubblico in una puntata dell’edizione video dell’opera La storia d‘Italia, condotta dal giornalista Mario Cervi.
Erano gli anni Novanta eppure, per il senso profondo di quelle sue parole, tanto spietate quanto perentorie, il quesito posto allora rimane quanto mai attuale.
Dovremmo aspettarci la stessa risposta anche oggi?
Chiarisco che la mia riflessione non ha a che fare con la politica, ma con il clima di fervore e rinnovo – quasi un rinnovo cellulare – che le elezioni dovrebbero portare, indipendentemente da chi le ha vinte. All’indomani dalla chiusura delle urne, la risposta data anni fa da Indro Montanelli mi si insinua nella mente come un tarlo e la sento risuonare, oggi più che mai, come uno spauracchio.
Il problema
D’altro canto, non siamo stati mai abituati a grandi scossoni da parte dei precedenti governi i quali, invece, diventano piuttosto miopi nell’inquadramento di un problema che è sotto gli occhi di tutti: l’industria della cultura, in Italia, non versa in buone acque ormai da anni.
Decrescono innegabilmente interesse e spazi per la lettura, il dialogo e la condivisione di idee. Si tratta di una tendenza che impoverisce il nostro Paese di quella componente fondamentale che porta i giovani alla curiosità e all’approfondimento, allo studio e all’analisi.
Ribadisco che questo non è un discorso politico, ma la politica può fare molto e questo a dispetto di ogni ideologia. Perché senza logiche di sviluppo, che non sempre corrispondono e/o incontrano le logiche di profitto, editoria, cinema, musica e teatro giacciono nei dimenticatoio per tutti i governi. Basti pensare che i fondi stanziati nel 2022 per il sostegno alla cultura da parte di Europa Creativa, con una dotazione di circa 385 milioni di euro, ha quasi 100 milioni in più rispetto al 2021. Il fondo è volto a rafforzare il suo sostegno ai partner dei settori culturali e creativi tenendo conto delle sfide derivanti dalla crisi COVID-19 e dalla concorrenza a livello mondiale.
“Vorrei che arrivasse il momento in cui una impresa, soprattutto una grande impresa che esporta nel mondo, si vergogni se non destina una parte dei propri utili al patrimonio culturale del Paese. Mi aspetto che la cultura del ‘give back‘, quella che caratterizza le società anglosassoni, diventi più sentita in Italia: chi interviene in cultura lo deve fare per vocazione morale”.
Lo ha detto il ministro della Cultura, Dario Franceschini, in apertura degli Stati Generali della Cultura, evento a cura del Gruppo 24 Ore in collaborazione con la Città di Torino.
Mariya Gabriel, Commissaria per l’Innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e i giovani, ha dichiarato: “I settori culturali e creativi sono l’anima della società europea e sappiamo quanto siano stati resilienti in questi ultimi due anni. Nel 2022 Europa Creativa beneficerà della dotazione più consistente di sempre. L’UE sarà al fianco di tali settori per sostenerne la ripresa, il processo creativo e il potenziale di innovazione. Invitiamo artisti, creatori e professionisti della cultura a esaminare le numerose opportunità di finanziamento offerte da Europa Creativa e ad avvalersene.”
Il Commissario per il Mercato interno Thierry Breton ha aggiunto: “Intensificheremo il nostro sostegno ai settori culturali e creativi europei, dai cinema ai festival, che sono stati duramente colpiti dalla crisi. Con il programma Europa Creativa mobiliteremo l’importo senza precedenti di 226 milioni di euro per il settore audiovisivo e di 35 milioni di euro per la cooperazione intersettoriale, compresi i mezzi di informazione. Europa Creativa investirà nell’innovazione nel campo delle tecnologie digitali e in nuovi tipi di contenuti, dalle serie televisive di alta qualità alla realtà virtuale. Nell’ambito dei nostri sforzi volti a proteggere la libertà dei media nell’UE finanzieremo partenariati giornalistici, rafforzeremo gli standard professionali e promuoveremo l’alfabetizzazione mediatica.”
La soluzione
In tanti considerano l’investimento in beni culturali e, più in generale, in cultura, letteratura, tradizione e teatro un “affare di Stato”. Ed è altrettanto diffusa l’opinione di considerare la spesa in questo settore “eccessiva” o “improduttiva” e finanche “proibitiva” in tempo di crisi.
Ma non è così nella realtà dei fatti.
Una moderna concezione, che tiene il passo con la crisi e con le mutevoli vicende del ciclo economico del nostro Paese, guarda alla cultura come una qualsiasi risorsa strategica, al pari dell’energia e del petrolio, delle infrastrutture in trasporti e comunicazione.
Lo sviluppo del nostro patrimonio culturale può, dunque, contribuire alla creazione di occupazione, un tema chiave di questi tempi, dando una via di sbocco ai giovani in cerca di sviluppi lavorativi. Emerge dunque la necessità, sempre più pressante, di gestire questo patrimonio, ai fini anche della partecipazione all’economia del Paese. Correttamente quindi si parla oggi di una “economia della cultura” che trova i suoi punti di forza negli ampi ritorni che una corretta gestione del patrimonio può avere in termini di generazione della ricchezza. Si pensi che un solo euro investito può avere un ritorno di 4 euro nel fatturato dell’indotto, molto più della cocaina, ad esempio.
Costruire qualcosa di nuovo
Ne deriva che investire nella cultura non solo è possibile, ma è necessario per giocare nel campo di quello stesso sviluppo, frutto della evoluzione e del confronto divorati, giorno dopo giorno, da un intrattenimento televisivo che ci vuole pigri e abbrutiti di mente e di cuore. Come difenderci da questo fenomeno? Come riconoscere i nostri limiti culturali e lavorare per abbatterli? Smettendo di aspettare che le cose cambino, iniziando in prima persona a costruire qualcosa di nuovo. Gettando ogni giorno semi di idee diverse e coltivandoli con cura e determinazione.
Quant’è importante creare ecosistemi sostenibili e moderni per sostenere e arricchire i nostri patrimoni culturali? È tutto, diciamolo chiaramente.
È il futuro dei nostri figli, è la speranza di un mondo migliore, più consapevole e sensibile a ciò che ci circonda. È la capacità di discernere ciò che è verità storica da fake news o burle da social. La storia è un fatto, non un’opinione. Studiarla non è frutto di interpretazione.
Leggere o non farlo non è la stessa cosa.
Il bene comune dev’essere un ideale comune.
La capacità di cambiare programma e cercare una migliore alternativa dev’essere elargita a chiunque.
Il nostro è un Paese cresciuto a velocità alterne, a causa dell’eterno divario tra il Nord e il Sud: una questione purtroppo ancora drammaticamente attuale, che ha determinato disparità economiche, disunione, pregiudizi culturali e un progressivo aumento della volontà di fuggire via…
Altrove, dice una famosa canzone di Morgan. Ma altrove dove? E perché?
Noi abbiamo tutto, credete a me che viaggio tanto, da sempre.
L’Italia, o meglio l’Europa, non ci lascia a piedi, anzi! E non tutto è delegato alle istituzioni, ma soprattutto alle nostre capacità personali del “saper fare”. Dobbiamo costruire, immaginare, e credere che lottare per le nostre idee è già una vittoria!
Non aspettiamo solo i governi però. Ripartiamo dalle idee, ripartiamo da noi.