La crudele esperienza di due sorelle ebree nei campi di concentramento crea una frattura inaspettata con il resto della famiglia, incapace di comprendere l’orrore. Ogni anno, da quando è stata istituita la Giornata della Memoria, le case editrici portano sugli scaffali qualche nuovo prodotto verso fine gennaio, intensificando così l’attenzione dedicata al tema.
Rispetto ad altri libri su questo tragico argomento, Il pane perduto di Edith Bruck (ed. La nave di Teseo), candidato al Premio Strega, ha una particolarità: dopo il racconto della deportazione e della permanenza nei campi di sterminio, è dedicato per buona parte al ritorno, a ciò che è accaduto dopo. E al fatto che non si è trattato “solo” di ricostruirsi una vita, cercando di elaborare l’accaduto grazie al sostegno dei familiari rimasti o degli amici: anzi, all’inizio il punto era proprio quello di ricostruire un rapporto con familiari e amici, spesso senza riuscirci.
Tra noi e chi non aveva vissuto le nostre esperienze s’era aperto un abisso, che noi eravamo diverse, di un’altra specie. Cosa stava succedendo? Il nostro avanzo di vita non era che un peso, mentre ci aspettavamo un mondo che ci attendesse, che si inginocchiasse. Ciò che ci turbava era reale o immaginario? Comunque fosse, nel breve periodo passato con Mirjam eravamo infelici […]. Per autodifesa ci tacitava.
Edith Bruck, “Il pane perduto”, pp. 67-68
Nel romanzo di Edith Bruck emerge l’impossibile ritorno alla normalità
Paradossalmente, sono proprio le sorelle delle due protagoniste a trovare più difficile il ricongiungimento: forse un senso di colpa mal gestito per essere scampate all’orrore mentre le loro consanguinee lo avevano vissuto per anni, forse il tentativo di risparmiare alle generazioni successive quella parte di storia, come una parentesi che si vuole considerare chiusa con tutte le proprie forze. O una semplice incapacità di rapportarsi con qualcuno che è in una condizione perennemente diversa, il goffo imbarazzo che si prova, ad esempio, di fronte a una persona molto malata. La permanenza nei lager diventa proprio una malattia, da cui non si guarisce mai.
La memoria, fra tragedia e miracoli
È quindi il mondo esterno alla famiglia che poco alla volta, tra passi falsi e insperate piccole fortune, riconsegna alla protagonista delle coordinate di vita. Studiare, imparare dei mestieri, guadagnare qualche soldo, viaggiare, sposarsi, divorziare, conoscere nuovi paesi e nuove persone. Tutto importante da ricordare, i momenti disperati come quelli della rinascita, tanto che Edith Bruck decide di metterli su carta quando si rende conto di avere qualche vuoto di memoria, dovuto all’età avanzata.
Così dà vita a questo lungo racconto, scritto con naturalezza e caratterizzato da passaggi di grande pulizia e intensità (“E lì un giorno successe un miracolo! Un soldato, dopo aver mangiato, mi gettò addosso la sua gavetta con l’ordine di lavarla come ogni giorno. E dentro, nel fondo, mi aveva lasciato della marmellata”, p. 46) che aiutano a intravedere quanto, in quelle condizioni, cambi la percezione di ogni cosa; e quanto si continui a sentirsi diversi, per sempre unici, in un mondo che non può capire.