
Eden è il nuovo libro di Sara Bilotti, pubblicato da HarperCollins Italia. È la storia di Giulia, docente universitaria distaccata e inarrivabile, che si trova a fare i conti con la morte della sorella Silvia, portentosa restauratrice e assistente all’università di Bologna. Tutte le indagini confermano una teoria suicida ma Giulia non è convinta: è in possesso, infatti, di una lettera che sembra dire l’esatto opposto. Guidata dalle parole della sorella, dunque, Giulia arriva a Bologna dove conosce Andrea e Gabriele, due uomini che vivono e respirano l’arte nella loro dimora, un luogo senza tempo e in apparenza senza peccato: l’Eden.
Ho avuto il piacere di intervistare Sara Bilotti ma, prima di condividere le sue parole, mi piacerebbe spenderne qualcuna in più per il suo romanzo.
Eden è una storia che parla di ferite, che le analizza nella completezza della loro anatomia, senza paura di andare a fondo una pagina per volta. Andando avanti in questa operazione di scavo minuziosissimo, non posso fare a meno di pensare, per un’associazione di idee, all’origine e, di conseguenza, all’origine del male. All’Eden, appunto.
Nel Giardino per eccellenza il male ha dimostrato che l’uomo può essere vittima e carnefice al tempo stesso; l’Eden acquisisce così una dimensione doppia: pur essendo una dimora di purezza, è anche il principio della dannazione umana. Anche il piccolo paradiso dove risiedono Andrea e Gabriele conserva la stessa dualità, la villa Eden è al contempo uno stendardo di bellezza intoccabile e l’alcova di un male tremendo e originario.
Gravitare attorno alla villa, dunque, diventa una necessità per tutte quelle anime ferite descritte nel romanzo di Sara Bilotti. Non può farne a meno la compianta Silvia, con il suo desiderio di essere materiale e vera, vista; non può farne a meno neanche sua sorella Giulia, marcata da una ferita così profonda che forse, nell’Eden e nei suoi abitanti, trova il suo cuore vivo e pulsante.
Eden dimostra quanto un luogo sia soprattutto un dominio dell’anima.
Ed ecco, come promesso, l’intervista a Sara Bilotti.
Giulia, la protagonista del romanzo, gioca molto sul concetto di vuoto e pieno, nel senso: quando senti tutto in maniera così soverchiante, è facile avere la percezione di non avvertire niente. Sembra un personaggio fermo, eppure, la sua fermezza tradisce una fragilità immensa. Che lavoro hai fatto sul personaggio? Da cosa hai tratto ispirazione?
Giulia deve tenere a bada un passato complesso: fa un lavoro certosino per non farlo emergere tra i pensieri, dunque si tiene distante dal mondo e dalle persone, da qualsiasi cosa possa far tornare a galla il senso di colpa. Il lavoro sul personaggio è stato difficile, per renderlo autentico dovevo creare una donna per certi versi respingente, rischiando di farla detestare dai lettori. Ma confido nel fatto che sia possibile, anche se doloroso, immedesimarsi.
Si può essere sorelle senza condividere la propria vita? Qual è secondo te il cuore del rapporto – o non rapporto – di Giulia e Silvia?
Sì, soprattutto se si condivide un passato doloroso e violento. Stare insieme avrebbe significato rivivere quel dolore giorno dopo giorno. È questo il cuore del loro rapporto (o non rapporto): l’assenza per la sopravvivenza.
La colpa sembra essere il motore immobile di Eden che, d’altro canto, rievoca proprio il giardino per eccellenza, macchiato dal peccato di Eva. Eppure, la colpa, nel tuo romanzo sembra anche ridefinire una certa rete di sicurezza per i personaggi che hai descritto, una specie di confine più o meno marcato che è possibile varcare solo tra simili. Secondo te, condividere la colpa può costituire un legame o è qualcosa che presto o tardi si sconta?
Il senso di colpa è generalmente un collante nelle relazioni. A volte viene anche utilizzato nella coppia per tenere accanto a sé l’altro. Naturalmente è un veleno, e anche a piccole dosi uccide, distrugge.
Gabriele è il personaggio maschile per eccellenza, in Eden, e per certi versi è facile capire come sia uscito fuori così forte, come una macchia di colore dal bianco della tela, per restare in tema. La sua figura dai contorni scivolosi si contrappone a quella di Davide che, pur mostrandosi ben più solido, vicino a lui sembra perdere consistenza. Come hai costruito queste due figure maschili?
Davide in realtà è un uomo interessante, con i suoi difetti ma anche numerosi pregi. Solo che accanto a Gabriele scompare. Ma non è l’unico. Attorno a Gabriele si crea una specie di corte, perché il suo carisma – anche se lo chiamerei maleficio, visto il modo in cui l’ha sviluppato – gli permette di restare impunito, nonostante faccia cose terribili. Esistono persone così: possono dire e fare qualunque cosa e gli Altri le giustificano, addirittura si inventano scuse per rendere le loro azioni assolutamente lecite. Un po’ come Dio nel Paradiso Perduto di Milton, a cui i miei protagonisti hanno dedicato il nome delle loro dimore: Eden.
Ogni personaggio, all’interno di Eden, porta con sé una ferita profonda o un contrasto interiore molto vivo. Sono piccoli abissi in cui per il lettore è facile cadere e che fanno riflettere sul prossimo, sul grado di attenzione che poniamo nei confronti degli altri. Eden è un invito all’ascolto, dunque?
Spero sempre che i miei romanzi siano un invito all’ascolto. Un invito a non giudicare dalle apparenze. Non so quanto efficace: saranno i lettori a dirmelo. La letteratura ci fornisce un’arma invincibile: l’empatia. Con essa possiamo distruggere gran parte dei mali del mondo, come il razzismo, per esempio. Qualcuno mi giudica naif per questo pensiero, ma continuo a crederci.