È noto come al vincitore del Premio Strega tocchi, giocoforza, sottostare alle medesime attenzioni e conseguenti polemiche di chi trionfi a San Remo o vinca il Leone d’Oro a Venezia. La sua opera sarà analizzata e recensita tanto dagli addetti ai lavori, quanto da semplici fruitori, affascinati dalla sua genialità, o delusi da smisurate aspettative. A questa regola non è sfuggito il romanzo Due vite di Emanuele Trevi, vincitore della scorsa edizione della kermesse letteraria. Dopo quasi un anno dalla sua incoronazione, a un doveroso resoconto che, a mente fredda, tiri le somme del percorso di questo libro, non possono sfuggire alcune impressioni ricorrenti riportate dai lettori.
Due vite, Eccessive aspettative
Accanto all’affetto verso i protagonisti di Due vite, che traspare dalla prosa poetica e raffinata dell’autore, unitamente alla maestria espressiva attraverso la quale, con garbo e mestiere, Trevi tratteggia i personaggi mediante aneddoti e peculiarità caratteriali, a volte traspare (principalmente nelle recensioni di comuni lettori pubblicate sui social e blog letterari) una sorta di sottile insoddisfazione, causata, credo, più dalle speranze disattese che da una supposta insipienza del contenuto. Se, da una parte, è lecito attendersi meraviglie dal vincitore di un premio che tiene banco per mesi nel mondo letterario e santifica titoli che approdano anche soltanto tra i dodici finalisti, dall’altra è pur vero che premi altrettanto prestigiosi, in ogni campo artistico, di qua e di là dall’oceano, ci propinano banalità solo a tratti inframmezzate da qualche capolavoro cristallino.
Un parallelo
Tentando di risalire all’origine di questo senso d’incompiutezza che anch’io, latentemente, ho avvertito dopo la lettura di Due vite, mi sono avventurato nello spericolato parallelo del romanzo Due vite di Trevi con uno di Thomas Bernhard, molto simile, almeno per struttura compositiva: Il soccombente. In entrambi i lavori, scritti a trentacinque anni di distanza, gli autori narrano le esistenze di due amici scomparsi, con cui hanno condiviso passioni e speranze con alterne soddisfazioni. Sorvolando sugli stili di scrittura decisamente differenti, quasi antitetici, nella lettura susseguente dei due romanzi mi ha colpito ciò che la chiusura dell’ultima pagina ha suscitato in me.
Nel caso del Soccombente uno struggimento amaro e una sorta di affetto distorto, quasi inconfessabile, per l’esistenza pusillanime di Wertheimer (vero protagonista del libro a cui la sua condizione di eterno perdente dà il titolo) maceratasi, in mille sfumature abbiette, nell’invidia per il trionfante pianista Glenn Gould. L’impossibilità di non individuare in noi qualche aspetto poco edificante delle piccolezze di quest’uomo, a cui l’altrui genialità ha tarpato le ali, ce lo rende in qualche modo caro e affine, pur nel mondo arcaico, scarsamente riconoscibile, in cui Bernhard fa muovere i suoi protagonisti. Lo stesso autore, parte di quel terzetto di amici che prenderanno strade diverse, si mette in gioco. Col cinico disinteresse col quale, spesso, lo scrittore austriaco infarcisce le vicende che direttamente lo riguardano, ci confessa quanta parte dei suoi sogni giovanili sono arsi nel braciere della consapevolezza di non poter mai superare in maestria l’amico musicista. Vita vera, quindi, senza filtri, che ci fa amare o disprezzare, invidiare e perdonare personaggi che alla fine del romanzo lasciano un vuoto dentro di noi.
Quadro a olio o acquerello?
Ciò che non ho trovato appieno in Due Vite è fondamentalmente questo. Quasi che l’eccessiva poetica possa scadere in retorica, che il troppo pudore per la memoria dei due personaggi abbia impedito ad alcuni, me compreso, di riuscire a tradurre in vita pulsante gioie e disamori a cui certo Trevi ha assistito e voluto comunicarci. Un filtro tra lettore e narrazione che non è stato rimosso e rende tutto perfettamente equilibrato, al punto da divenire asettico.
Queste righe vogliono essere un tentativo, con l’utilizzo di un parallelo ardito, di dare un nome alla sensazione di latente vaghezza che lascia la lettura di un romanzo comunque ottimamente scritto. Forse siamo più inclini ad accenderci alle tinte forti, grumose di pigmenti mal diluiti, dello stile di Bernhard, che a farci incantare dai profili acquerellati da Trevi; oppure, in fin dei conti, ciò che fa la differenza tra due buone prove letterarie è sempre e soltanto il nostro istinto di lettori indefessi.
Spesso la passione per la letteratura non è altro che questo: il piacere del rinvenimento di un diamante purissimo laddove nessuno aveva guardato prima o, viceversa, scoprirci tiepidi davanti allo sfavillio del filone d’oro zecchino da tutti celebrato.
Piero Malagoli