Donato Carrisi è un autore italiano di thriller o, come si dice sempre più spesso, l’autore italiano di thriller per eccellenza. Leggere i suoi libri, secondo la mia esperienza, vuol dire addentrarsi in un mondo d’ombra che mi porta a contatto con nuove parti di me. Come mai vi dico questo? Semplice: adesso, punto per punto, vi spiego perché è necessario conoscere questa penna inquietante e magnetica.
Il protagonista
Vi aspettavate un plurale, lo so, i suoi libri sono tanti. Ma in ognuno dei suoi thriller protagonista è il Male, con la maiuscola. Non parliamo di delitti, neanche di colpevoli. Il Male, nei libri di Donato Carrisi, è una presenza che permea la narrazione, si attacca alla pelle come il petrolio. L’ho sentito addosso con consapevolezza quasi tattile, come si avverte una mano sulla spalla o il pizzicore della lana grezza.
Per tutta la vita ci insegnano che il Male, sempre quello con la maiuscola, è qualcosa da cui scappare senza guardarsi indietro. Bizzarro, dunque, scoprire che per quanto ci si sforzi la strada che ci separa da lui è sempre troppo poca. Quello raccontato nelle pagine dei suoi romanzi è un Male dal vestito nuovo: non più biblico e distante, estremo manifesto di una cattiveria inarrivabile e assoluta, ma piccolo scempio quotidiano a cui l’occhio fa l’abitudine e che ricerca in maniera morbosa quando manca. Non ci credete? Eppure lo viviamo tutti i giorni! Una ragazzina scomparsa, la ricerca di un colpevole, la curiosità macabra che spesso è un morbo e toglie lo spazio alla compassione, all’empatia. Il delitto di Cogne, Meredith Kercher, la strage di Erba: i sono alcuni delitti che non passano in sordina, entrano nelle nostre case e ci trasformano in un tribunale inquisitorio mentre la sofferenza di chi resta diventa la telenovela del dolore, l’appuntamento fisso alle otto di sera. Diamo giudizi e cerchiamo mostri, ci illudiamo di essere lontani da tali realtà convincendoci che, in fondo, il nostro interesse è d’informazione, non certo intrattenimento! Però lo è, lo viviamo come tale perché il Male ci intrattiene ed è una bestia sociale, ha le sue personali leggi dell’attrazione e si è assicurato una presenza fissa nel nostro quotidiano. Capire tutto questo perché lo stiamo leggendo in un libro è strano, e cercare di conoscerlo diventa a sua volta una nuova conoscenza di noi stessi.
I personaggi
Le persone descritte da Donato Carrisi si muovono sulla linea sottile che divide giusto e sbagliato, pregio e difetto. Ogni buona regola di narrativa dice che anche i personaggi più buoni devono mostrare un lato oscuro, così come deve esserci, in quelli cattivi, un aspetto capace di suscitare un pizzico di comprensione nel lettore. Per quanto sia un’ottima regola, questa, non si concilia con la realtà che viviamo tutti i giorni. Un tratto solo non basta, siamo fatti di strati permeabili ed è impossibile che quanto abbiamo di valente non si mescoli mai con quello che cerchiamo di tenere nascosto, quella zona grigia mai singola, raramente priva di conseguenze. D’altro canto, chi dice che una buona azione sia semplicemente buona? Quante cattiverie sono state fatte con animo paladino? Ogni santo manuale di costruzione del personaggio ripete: “Dagli una storia, rendilo credibile”. Cosa succede, però, quando leggendo lo sentiamo vero, vicino, troppo simile a noi?
I personaggi tratteggiati dall’autore sono sfaccettati, equilibristi su quella stessa linea che percorriamo tutti i giorni. Verosimili oltre ogni nota di biasimo, i protagonisti di Carrisi escono dalle pagine e si fanno riconoscere. Quel che mi piace è che mettono in continua discussione quanto penso o immagino delle persone attorno a me. Così, mi pongo qualche domanda anche sul mio concetto di indulgenza: riesco a darne agli equilibristi delle storie che leggo ma quante volte la nego a chi mi sta intorno? Certo, posso dirmi che Mila Vasquez, Marcus, Vogel o Battista Erriaga non sono persone reali, ma sarebbe una bugia perché il compito di un personaggio ben scritto è quello di far riflettere il lettore sulla realtà, uscire dalla gabbia sottile di carta della pagina per dire a noi, spettatori emozionati, che è il caso di mettere in discussione qualcosa. Così mi chiedo, nuda di ogni vergogna: riesco a compatire il marcio solo perché nero su bianco comprendo i meccanismi segreti che lo portano a galla?
Il compito di un autore è quello di generare curiosità ma tale incarico consiste nell’essere un generatore inesauribile di quesiti. Mi è sempre stato detto di porre domande al testo e ai suoi personaggi perché, a un certo punto, sono capaci di aprirci gli occhi su come viviamo la nostra esistenza, se in modo giusto o sbagliato. Pertanto, se leggendo Carrisi mi trovo a giustificare i momenti brutti dei “buoni” e comprendere la malvagità dei “cattivi”, forse tra le pagine c’è un invito a guardare in modo diverso chi mi sta intorno che, al contempo, mi fa chiedere di essere guardata allo stesso modo.
Il confine
Si è parlato del confine tra Bene e Male, quello su cui tutti incespichiamo quotidianamente. Nelle storie raccontate da Donato Carrisi questo confine si rende visibile, così come visibili sono i nostri piedi mentre lo costeggiamo. Parliamo di un limen con una caratteristica in particolare: la sua consistenza non è di ferro ma risulta fumosa. Non sai, una volta allungato il piede, cosa possa esserci dietro. Possibile che ci sia la versione finale di noi stessi, possibile che ci porti in un labirinto per il quale siamo sprovvisti di filo, e che per forza di cose finiamo per perderci del tutto. Siamo fatti di strati e per quanto ci sforziamo di portare al fondo i nostri lati oscuri, seppellire non vuol dire eliminare. Spesso, più di quanto ci faccia piacere ammettere, confiniamo oltre il limen quanto stona con l’immagine che vogliamo ci rappresenti. Il confine tratteggiato da Carrisi può far chiedere quale sia il nostro, di limen, il labirinto in cui non vorremmo mai addentrarci. Nei romanzi il confine rientra a pieno titolo nel novero dei luoghi. I personaggi che giocano con il Male lo fanno sul ciglio del labirinto e a volte si fermano, altre vanno avanti. Se siano provvisti del filo per il ritorno, non sta a me dirvelo.
Perché ragionare sul confine, sul banco di nebbia che contiene i nostri lati oscuri? Direte voi: quanta riflessione, è solo un thriller! In realtà il delitto, o crimine, non è un atto compiuto da alieni ma il frutto di un tipo di umanità che, anche se non ci rappresenta, è ben annidata dentro di noi. Talvolta i personaggi nei libri di Carrisi lo sanno già bene, altre volte lo scoprono, altre ancora portano questo messaggio come uno stendardo.
Sapete cosa potrebbe succedere in un attimo di smarrimento, quando camminate e le vostre gambe inciampano in terreni ignoti?
Se la risposta è no, forse Carrisi è lo scrittore che fa per voi.
Lo stile
Non voglio certo proporvi una disamina sulla narrativa di Donato Carrisi. Posso parlare del suo stile in quanto mi ha fatto emozionare, per il modo in cui mi si è infilato sotto la pelle: l’unica cosa che volevo era leggerne di più. Un thriller per definizione mantiene viva l’attenzione del lettore, è un brivido che accompagna la narrazione pagina dopo pagina. Se prendiamo come unico esempio Il tribunale delle anime, il thrill mi ha fatto compagnia per ogni linea narrativa e in ogni focus sul personaggio del momento. Lo stile è elegante, evocativo al punto da condurre l’occhio nei luoghi e la mente negli stati d’animo. Ho passeggiato per paesini sconosciuti e visitato Roma in modo nuovo, ho vissuto avventure sentendomi parte integrante di un gruppo; ho chiuso gli occhi quando il momento descritto era troppo forte e mi sono sentita sola una volta terminate le letture.
Soprattutto, a farmi andare avanti capitolo dopo capitolo è stata la capacità dell’autore di dare a ogni momento le parole di cui aveva bisogno. Questo è quello che oserei definire una sorta di determinismo letterario. Così come in filosofia sono i rapporti di necessità tra causa ed effetto a determinare l’andamento dell’universo, nei libri di Carrisi questa determinazione viene espressa nell’uso di termini indispensabili alle intenzioni del testo. Mi limiterò a citare Grossman in senso lato, dicendo che ogni parola è caduta esattamente dove doveva.
La competenza
La mia mente curiosa ama farsi tante domande, di quelle che si trasformano in dubbi amletici e una cosa che mi è sempre rimasta vicino al cuore come la più limpida delle certezze è relativa alla scrittura: si scrive di ciò che si conosce. Il perché esula dal terrore di scrivere sciocchezze: non si tratta di quello. Quando si ha la padronanza di un argomento la vera sfida diventa arricchirlo di quello che sei, concedersi senza filtri alla pagina bianca. Ho sempre ritenuto questo un atto liberatorio e credo sia ciò che permette davvero a uno scrittore di entrare in comunione con i lettori.
Con una specializzazione in criminologia e scienza del comportamento, Donato Carrisi è decisamente competente in quello che dice, dunque quanto traspare dalle pagine non è tanto il dato scientifico o una pagina di manuale quanto la trama che, libera, può svilupparsi in ogni sua declinazione. La competenza è il punto di partenza per un pericoloso e bellissimo viaggio, tanto per chi scrive quanto per chi legge. Nel caso specifico, Carrisi si presenta elegante e inesorabile. Immagino che i quesiti che mi spingono a leggere i suoi libri siano solo una briciola di quelli che si è posto lui durante il processo di scrittura. Forse è per questo che, a volte, ho la sensazione di essere ospite non invitata in una scena di nudo.
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