Creata da Garry Marshall, Happy Days era composta da undici stagioni. La serie rappresentava il mito americano, raccontando le vicende di una famiglia, i Cunningham, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. In Italia, la prima stagione di Happy Days venne trasmessa su Rai 1 nel dicembre 1977.

Gli italiani nati negli anni dell’arrivo della serie tv, come chi scrive, di Happy Days ricorderanno soprattutto la sigla. Il rock’n’ roll di Rock around the clock di Bill Haley & The Comets, a inizio puntata, e quello di Happy Days, canzone scritta da Norman Gimbel e Charles Fox, alla fine dell’episodio. E il giradischi che impazziva sotto ai vinili.
Di quello che succedeva nella famiglia Cunningham capiva ben poco. Il viso sornione del papà di Richie e quello della mamma Marion, però, rassicuravano.
Happy Days in America e in Italia
In America la serie nasceva come una celebrazione degli anni Cinquanta e Sessanta. In Italia, il pubblico la associava invece alla spensieratezza dei primi anni Ottanta (la serie è stata trasmessa per diversi anni).
Mille i temi trattati che coinvolgevano, a rotazione, tutti i membri della famiglia Cunningham: amore, amicizia, cinema, musica, feste e musica.

Howard Cunningham aveva un negozio di ferramenta. Sua moglie era la “regina del focolare”. Richie, suo fratello Chuck, Fonzie e gli altri amici frequentavano il Drive-In di Arnold, una tavola calda vicino alla scuola. Una famiglia tipo, semplice e stereotipata al punto giusto. I sogni e le ambizioni dei giovani americani erano a disposizione.
Erano i tempi racchiusi tra la fine del coinvolgimento statunitense nella guerra di Corea e la vigilia di quello nella guerra del Vietnam. Il modello di vita americano sembrava quello ideale. I temi trattati in Happy Days erano universali: si parlava dei problemi causati dal passaggio dall’adolescenza alla maturità, sui rapporti con se stessi e con l’altro sesso.
Il tutto era affrontato con molta leggerezza e ironia. In Italia, oltre alla musica – Elvis, Happy Days e lo stile rockabilly sono in voga ancora oggi – e alcune chicche modaiole, tra cui spicca il giubbino di pelle di Fonzie, poco arrivava del messaggio di fondo. Più che sogno americano, era un concentrato di vitalità e idee da cui attingere a piene mani.
Cosa resta di Happy Days
A distanza di quasi cinquant’anni, cosa ha lasciato Happy Days? Alcuni modi di dire come “Hey!”, classica espressione di Fonzie, sono entrati ormai nel nostro quotidiano.
Il lascito maggiore, però, resta nella moda. Camicette colorate abbottonate fino al colletto, foulard, ciuffi alla Elvis, gonne vaporose e variopinte si vedono ancora. Decolleté con mezzo tacco e ballerine ci hanno accompagnato fedeli.

E che dire della musica? In un momento in cui accendere la radio è un gesto che si compie a proprio rischio e pericolo, far girare un vinile di Elvis Presley, Nat King Cole o Sam Cooke è senz’altro una buona idea. Per quanto riguarda i balli, alle feste a tema si rievocano con piacere il boogie woogie, lo swing in numerose varianti, il mambo e il jive.
Il post pandemia e il bisogno di Happy Days
Dopo il confinamento sociale degli anni scorsi, oggi prevale una voglia esagerata di divertimento, musica, incontri e balli. Cosa più del rock’n’roll incarna questo spirito? Come nel periodo a cavallo degli anni Cinquanta/Sessanta in America, anche oggi si ha voglia di vivere il sogno – anzi, i sogni – che hanno aspettato pazienti, covando sotto la cenere delle autocertificazioni.
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