Hayao Miyazaki ha cambiato idea, è tornato dalla pensione per donare a suo nipote e a noi Il ragazzo e l’airone. La nostra recensione e le nostre riflessioni sul nuovo anime dello Studio Ghibli.
In Giappone nella fine degli anni Trenta, il giovanissimo Mahito ha perso sua madre durante la guerra e ha lasciato Tokyo per la provincia rurale, in compagnia di suo padre, che sta per sposare la sorella della defunta. Esplorando i dintorni, Mahito scopre una torre misteriosa che è un portale verso un altro mondo, con più di un legame tuttavia con la realtà, compresa la sua.
Dopo Si alza il vento, che doveva essere nel 2013 il suo commiato dal cinema, Hayao Miyazaki non ha resistito molto da pensionato forzato: lo ritroviamo oggi insieme al suo Studio Ghibli, a 82 anni, forse per salutarci definitivamente con questo Il ragazzo e l’airone. Sarebbe lecito a questo punto non credergli fino in fondo, però ci sono buoni motivi adesso per riconoscere un reale sipario in questo anime, che sintetizza la gran parte delle caratteristiche del suo cinema, in particolare quelle più visionarie e immaginifiche.
Il controllo formale del film è finalizzato, come spesso è accaduto con Miyazaki, a favorire una vera abitabilità dell’esperienza cinematografica: lo spazio dell’inquadratura diventa ospitale, indugiando quanto basta sui fondali acquerellati che definiscono un mondo, ora con dettagli storicamente meticolosi (si osservino gli interni), ora con suggerimenti al limite dell’impressionismo negli esterni. Ossessiva, nel ritmo di montaggio non convenzionale che sfida il rischio di tempi morti (non sempre evitandoli: un prezzo da pagare), è l’attenzione al sonoro che dà tangibilità a queste ambientazioni: tutto l’incipit del film è praticamente narrato dai movimenti di Mahito su diverse superfici e attraverso diversi ambienti, quasi ritrovassimo nell’eco di quei passi, di quegli inciampi, di quell’acqua, di quel materasso, la nostra esplorazione fisica di questo mondo alternativo. Al decollo della fantasia, la colonna sonora di Joe Hisaishi le dà ancora una volta voce, per andare lì dove i dialoghi e i rumori del reale non possono arrivare.
Insomma, chi cerchi l’Hayao Miyazaki classico in Il ragazzo e l’airone lo troverà, con tutti i suoi sprazzi grotteschi che hanno radici fiabesche lontane (le sette governanti sono un evidente omaggio ai sette nani, icone che immediatamente confermano l’affacciarsi del fantastico nella dura esistenza di Mahito).
Ma questa volta c’è qualcos’altro.
Abbiamo avuto modo spesso negli anni di notare, tramite interviste o resoconti di terzi, come Miyazaki non si sia mai risparmiato severità verso se stesso, suo figlio Goro o l’arte dell’animazione in generale, vissuta con meticolosità e rigore. Un atteggiamento perfettamente coerente con quella necessità di annunciare il proprio ritiro, azzerando ogni tipo di autoindulgenza. L’esistenza stessa di Il ragazzo e l’airone a questo punto suonerebbe come una contraddizione, perché sembra andare contro questa volontà di risolvere il proprio rapporto con l’arte e con il pubblico. In realtà, dopo aver visto il film, si tocca con mano il motivo del dietrofront: era molto più coerente affidare questa risoluzione, questo commiato, a un film, piuttosto che a interviste o agenzie di stampa. Qualcosa era rimasto in sospeso: a salutarci doveva essere una storia, che per una volta non è abitata solo dal pubblico, ma dallo stesso autore. Sì, perché è difficile non pensare che l’anziano antenato di Mahito della storia, rimasto prigioniero di questo mondo alternativo, suo demiurgo, sia a tutti gli effetti proprio Hayao: c’è qualcosa di molto intimo nel modo in cui confida la sua sempre più faticosa difficoltà con cui lo tiene in piedi, ansioso di trasmettere un’eredità… che forse è intrasmettibile.
Il ragazzo e l’airone innalza l’arte (grafica, cinematografica, letteraria) a origine di tutto, della stessa vita, in un corto circuito tra procreazione e creazione artistica, in un annullamento – seppure provvisorio – delle distanze che il tempo impone a genitori e figli, a nuove e vecchie generazioni. Un messaggio potente quello che Hayao ha detto di voler dedicare a suo nipote, ma anche una considerazione saggia. Perché l’innalzamento, con dolcezza struggente, è tutt’altro che granitico, anzi: è destinato a lasciare spazio non solo a nuovi immaginari, nuove vite e nuove creazioni, ma anche alla natura stessa che da sempre era stata fonte d’ispirazione di quell’arte, e che ora merita di riavere indietro le sue creature.
Nella complessa stratificazione di rimandi e significati di Il ragazzo e l’airone ci si può perdere, ci si può anche annoiare occasionalmente per una struttura slegata di stampo carrolliano (non è sacrilego ammetterlo), ma non si perde mai la riconoscenza per essere stimolati nella nostra curiosità. Hayao Miyazaki non è solo un autore che si prende sul serio, ma pretende che prendiamo sul serio noi stessi, nel ruolo di spettatori e spettatrici.
Ci mancherà.
articolo originale: comingsoon.it