Prima di essere una leggenda dello sport devi essere un uomo e Kobe Bryant ha dimostrato di esserlo fino all’ultimo. “Dear Basketball” la commovente lettera d’addio allo sport, oltre che consacrarlo a icona, vinse un Oscar nel 2018.
Come mai? Cosa rende quel toccante cortometraggio più speciale di altri? Scopriamolo insieme, scorrendo tra i bellissimi disegni di Glen Keane. Il protagonista del cartone animato è lui, Kobe: la sua umanità, il suo spirito di sacrificio, il suo amore immenso, il suo esempio di vita. Credere che i sogni possano diventare realtà è una speranza che accomuna tutti noi esseri umani, ma è ciò che avviene dopo a fare la differenza. Kobe era uno di noi, un ragazzo semplice che a sei anni fantasticava di diventare un campione dell’NBA. Sin da allora ha dedicato la sua vita a questo scopo, ma non ha soltanto vinto la sfida, ha guadagnato tanto di più.
“HAI CHIESTO LA MIA DETERMINAZIONE, TI HO DATO IL MIO CUORE PERCHÉ L’HO RIAVUTO CON MOLTO DI PIÙ.
Amare profondamente qualcosa ti fa sentire vivo: è questo a renderti più determinato degli altri. Perseguire uno scopo, lottando con ostinazione contro il dolore e trasformando le difficoltà in opportunità ci spinge ad abbattere i nostri limiti e amplia gli orizzonti aiutandoci a comunicare con il mondo. “Per me”, scrive Kobe nel suo libro, “è tutto cominciato con un sogno. La sola via per realizzarlo era adottare una mentalità vincente e focalizzarmi a fondo sugli aspetti mentali del gioco che amo”. Sembra scienza, invece è pallacanestro e tanta disciplina.
Tutti noi abbiamo ammirato i gesti atletici che Kobe ha compiuto in vent’anni di carriera con la stessa maglia; la sua spensieratezza nel raggiungere le mete più ambite, la determinazione espressa in ogni corsa e ogni salto, finanche ogni clamorosa palla persa ha costruito, passo dopo passo, la sua trionfale cavalcata verso la leggenda.
Questo suo modo di intendere la pallacanestro in maniera totalizzante, quasi esacerbante non dev’essere stato uno scherzo per un ragazzo che sin da piccolo ha viaggiato in lungo e in largo per il mondo. Suo padre, ex cestista, lasciò l’NBA per militare in due squadre italiane prima di diventare un allenatore.
Diventare il Kobe Bryant di se stessi
“È difficile spiegare a un bambino cosa sia un’ossessione, ma insieme a questo, parlando di Kobe Bryant, si insegna anche che sbagliando si impara perché lui, nella sua carriera, ha sbagliato più tiri di quanti ne abbia messi a segno. Diventi Kobe Bryant se sbagli tanto, ma insisti e riprovi”. È questo che ci descrive l’illustratore Francesco Poroli nel suo libro dal titolo Like Kobe. Il Mamba spiegato ai miei figli, pubblicato da Baldini&Castoldi.
L’ossessione folle, la dedizione costante e assoluta alla pallacanestro sono venuti con il duro lavoro, la concentrazione e lo studio, “il punto non è essere Kobe Bryant, ma diventare il Kobe Bryant di se stessi”. Ancora Poroli che si rivolge ai giovanissimi ai quali è dedicato il suo racconto della vita del campione. I suoi luminosi sorrisi, quelli di un bambino entusiasta, spesso intervallati da rivoli di sudore che gli ricoprivano la fronte, il gesto di snudare i denti per manifestare la grinta, che non lo abbandonava mai, i pugni stretti e le sua urla di giubilo ci hanno unito al “Mamba” in quei momenti fatidici.
Ma diciamolo: Kobe non era come gli altri, la sua straordinaria empatia verso il prossimo e il suo parlare fluentemente italiano ce lo hanno reso davvero unico. Nondimeno, chiunque oggi parli di lui, lo sente vicino a sé ed è questo il suo vero lascito.
È così che si crea la leggenda di Kobe
Da sempre dotato di un talento straordinario, come lo ricordano a sei anni a Reggio Emilia e a Rieti, ha alimentato il duro lavoro, con una serietà e un’etica professionale instancabili. La mentalità non si raggiunge mirando al risultato, ma al processo che conduce allo stesso, riguarda il percorso e l’approccio.
E in questo Kobe era davvero diverso.
L’amore che rende liberi, ti fa credere che esaudito un sogno tu possa dedicarti anche ad altro. “NON POSSO AMARTI OSSESSIVAMENTE.” ammette con voce ferma in quella famosa lettera d’amore alla pallacanestro. Lo sforzo sconsiderato che ci porta a perseguire uno scopo può infine limitarci. Ed è proprio la presa di coscienza, coraggiosa, incontestabile di questo limite che ha reso il campione un’icona. Uno che guarda oltre il suo sogno, che supera il suo traguardo e poi si volta indietro osservando con tenerezza tutta la sua vita. Kobe è un uomo che sa dire addio alla sua carriera con una profonda e consapevole dignità.
“CI SIAMO DATI A VICENDA TUTTO CIÒ CHE AVEVAMO. ED ENTRAMBI SAPPIAMO CHE NON IMPORTA CIÒ CHE SUCCEDERÀ DOPO, IO SARÒ SEMPRE QUEL BAMBINO CHE SOGNA COL PALLONE IN MANO.”
Indimenticabile esempio umano.
Kobe ci lascia questa grande eredità e non è poco rispetto al suo immenso talento. Come non celebrare gli strabilianti 81 punti del Black Mamba nella partita in cui i Los Angeles Lakersdecisero di sotterrare i Toronto Raptors? La sua esistenza oggi è un esempio per tanti sportivi, ma lo è soprattutto per gli esseri umani, sparsi nel mondo, che vedono in lui un vincente nella vita prima che sul campo da gioco.
Possiamo intitolarti delle piazze, caro Kobe, ma è il nostro cuore il luogo perfetto per celebrarti, dove resterai per sempre uno di noi: un bambino con una palla in mano e un grande sogno.