La figura di Marilyn è oggetto da diversi decenni di una escalation rivalutativa di cui poche altre dive hanno goduto. Ormai si è andati oltre l’idea che fosse la svampita sexy, l’incarnazione del sogno erotico del maschio occidentale, l’attrice mediocre adatta solo a copioni leggeri quando non addirittura insulsi. Tutti sanno che Marilyn era anche altro.
Eppure, se è facile dire che lei era molto più di quel che passava all’epoca, più difficile è cercare di capire chi davvero fosse. Joyce Carol Oates nel suo libro del 1999 ci prova e interpreta vicende già degne di un romanzo traendone Blonde, il libro che non è una biografia ma una trama ispirata dalla vita di Monroe.
Blonde: il rischio di toccare un mito
È ingrato il compito di chi sceglie di toccare i miti universali in una chiave che, pur di poco, si discosta dal pensare comune, ma una penna sapiente come quella di Oates sa creare quella bolla di sospensione che lascia nel lettore il seme del dubbio, il fatidico “potrebbe essere”. La sfida vera l’ha raccolta Andrew Dominik, regista e sceneggiatore del film omonimo, che ha lavorato all’adattamento fin dal 2010.
È un mondo di demoni, quello in cui viviamo per le due ore e mezza del film. Diavoli, dolori e delusioni sempre maggiori da cui Norma Jeane non sa difendersi e a cui Marilyn soccombe, nel continuo tentativo di sopravvivere. Tutto è dramma, lacrime, urla e sofferenza nella vita dell’attrice, e proprio questa monodimensionalità è la pecca principale del film.
Troppa luce e troppe ombre per un corpo usato e abusato
Uno degli elementi che più destabilizza è la luce abbacinante scelta per girare l’oscura tragedia, quel viaggio agli inferi che è la breve vita di Marilyn.
Proprio la luce che accende di speranza lo sguardo di Norma Jeane nelle prime foto, nella scoperta dell’amore con Chaplin jr., nel trovarsi incinta, diventa artificiale e impietosa man mano che set, camere e corridoi d’albergo spengono l’anima di Norma per lasciare ben in vista solo un corpo. Un corpo senz’anima, un simulacro vuoto che si consuma nel sacrificio di una persona troppo fragile, in balìa della società americana malata e mentalmente corrotta.
Il film, quanto il libro, sembra voler raccontare come a ogni compromesso, rinuncia e violenza, la personalità di Norma dovesse scindersi e piegarsi a interpretare il suo personaggio principale, la favolosa Marilyn. Il ruolo di un’intera vita, quella protagonista che le fagocitava ogni energia.
Norma Jeane non sa difendersi dalla personalità che tutti – collaboratori e ammiratori – le calano addosso ogni giorno. Non sa sfuggire ai lupi che la divorano con quelle bocche deformate, a quegli occhi fissi. Soccombe sotto quei versi animaleschi mai trattenuti che si trasformano in boato quando il vestito bianco si solleva e mostra l’unica cosa che interessa loro. Gli spot abbaglianti, i flash, i rallenty sulle facce mostruose dei giornalisti assatanati e i loro ghigni abnormi si alternano al ripetuto fluttuare agile del vestito di Marilyn in una scena difficile da dimenticare, che lascia l’amaro in bocca per giorni.
Il lupo peggiore di tutti
Il lupo peggiore di tutti? L’uomo più potente del pianeta, il rappresentante del mondo libero, l’amatissimo presidente Kennedy. Se anche Norma non fosse stata innamorata di lui, non avrebbe potuto sottrarsi alle voglie della suprema carica degli Stati Uniti.
L’inquadratura insolita scelta per la scena di sesso presidenziale non è di immediata decifrazione. Gli occhi grandi bucano lo schermo, il movimento ritmico è fissato dalla camera ferma e a pochi centimetri dall’essere pornografica, le lacrime scendono per lo sforzo. Tutto questo non permette di realizzare subito cosa si stia vedendo.
Solo dopo lo stupro, quello sì è lasciato intuire, ci si rende conto che tutto serve per rappresentare l’oggettivazione della donna, di cui Marilyn – non Norma Jeane – è simbolo stesso. A godere di quella bocca dal rossetto sempre perfetto che si sbava, a tirarla giù con violenza mentre si asciuga gli occhi non è solo Kennedy, è l’intera società, che fa di lei un mero oggetto di cui abusare in piena libertà perché sente di averne diritto.
Aborto: la polemica si riversa su Blonde
Norma Jeane abortisce una prima volta per scelta, una seconda per incidente e una terza per motivi di stato estranei alla sua volontà. Nel primo caso la attanaglia il terrore che la creatura possa nascere con gli stessi problemi mentali della madre e che lei stessa sente di avere. Nel secondo la casualità è crudele, proprio quando sembra vivere un periodo sereno. Sposata al drammaturgo in ascesa Miller, si sente amata e apprezzata ed è felice di poter creare una famiglia con lui, che pure ne sottovaluta di continuo l’intelligenza e la cultura.
La scena del dialogo con il feto che la accusa del precedente aborto è un’altra di quelle che ha scatenato polemiche molto accese. Il bisogno di esprimere il senso di colpa, la speranza, la voglia di riscatto e di una famiglia che non aveva mai avuto sono alcuni degli elementi che stanno dietro quella scena. Tra tra le battute, però, si sente la vox populi che dominava il pensiero corrente dell’epoca. Fragile com’era Norma Jeane, avrebbe potuto davvero non essere influenzata dal pregiudizio di una società come quella in cui viveva?
Certo, se non è stata una scelta precisa volta a far parlare del film, l’argomento avrebbe potuto essere trattato in modi meno fraintendibili. L’aborto del feto presidenziale, violenza frutto di violenza, invece, la priva di ogni scelta, liberandola di questa colpa agli occhi dello spettatore, anche se non ai suoi.
Blonde: giudizi e pregiudizi
È difficile approcciarsi a Blonde senza pregiudizi, dopo tutto quel che si è letto e sentito negli scorsi giorni, ma proprio per non questo sarebbe bene lasciar sedimentare le sensazioni dopo averlo visto: piano piano l’angoscia lascia il posto a qualcosa di molto più complesso.
Infatti, anche Oates nei giorni scorsi si è trovata a difendere la pellicola su Twitter:
“Penso che sia una brillante opera d’arte cinematografica, ma ovviamente non si tratta di un film per tutti. Sorprendente che in un’era post MeToo la cruda esposizione dei predatori sessuali di Hollywood sia stata interpretata come ‘sfruttamento’. Sicuramente Andrew Dominik intendeva raccontare la storia di Norma Jeane con sincerità. Il regista è irremovibile, intransigente. Gli ultimi 20 minuti sono quasi troppo potenti per essere guardati.”
Le conoscenze del contesto storico, sociale e culturale degli anni Sessanta, l’immagine mitica di Marilyn e della Hollywood dell’epoca, le lotte femministe e pacifiste, e molto altro si sommano poco per volta e ci si rende conto che abbiamo aggiunto un tassello a quel capitolo della nostra storia recente. Una pagina narrata forse con uno stile diverso dal resto, ma che apre una finestra su quel “potrebbe essere” che spinge a proseguire la lettura di un mondo e un periodo che continuano a influenzare moltissimo il nostro presente.