Negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento notevole nella pubblicazione di autobiografie, molti dei quali candidati anche ai premi più prestigiosi. Mi sono chiesta quale possa essere il motivo di tanta attenzione del pubblico. Ho pensato che forse, improvvisamente, molte più persone hanno reso la loro vita così interessante da non poter evitare di raccontarla. No, forse no. Allora mi sono chiesta se, magari, siamo solo tutti più impiccioni.
Le autobiografie sono un fenomeno in crescita, è lecito chiedersi quale sia il reale motivo di tanta attenzione
Il fenomeno in crescita va osservato da due punti di vista: chi scrive e chi legge. L’autore ha un desiderio profondo di far conoscere la propria storia, ritenendola unica e speciale.
Molto spesso vi è in questi libri il racconto di una malattia e il desiderio di aiutare chi sta per affrontare un percorso simile. È questo il caso, ad esempio, di Febbre di Jonathan Bazzi candidato al premio Strega 2020. Una narrazione lucida e particolareggiata, con uno stile inconfondibile; una storia sempre protesa a un climax che non sopraggiunge, perché nella vita reale le cose funzionano diversamente.
Un filone molto redditizio delle autobiografie è quello dei personaggi pubblici, in particolare quelli televisivi, che raccontano i fatti loro per il gusto di farlo. Molto spesso si tratta di libri scritti da un ghostwriter, ma poco importa: le ristampe si susseguono. Le corna stanno bene su tutto di Giulia De Lellis è un esempio perfetto: scritto da Stella Pulpo narra le esperienze amorose di un’ospite fissa dei talk show.
Nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti
Andy Warhol
Una menzione particolare va fatta per le autobiografie dei sopravvissuti all’olocausto: a partire da Se questo è un uomo di Primo Levi fino ad arrivare al Premio Strega 2021 con Il pane perduto di Edith Bruck. Va loro attribuito il merito di mantenere sempre viva la nostra memoria, perché la storia non si ripeta.

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Sempre candidati al Premio Strega 2021 sono anche Splendi come vita di Maria Grazia Calandrone e Sembrava bellezza di Teresa Ciabatti. Il primo racconta l’esperienza dell’adozione con tutte le difficoltà del caso e, un po’ come per la malattia, tende forse a voler fare gruppo con chi vive la stessa situazione. Il secondo è difficile da far rientrare in una categoria. Il linguaggio schietto e il completo abbandono di ogni conformismo ne fanno un piccolo gioiello di narrazione, che perde ogni aspetto attribuibile all’autobiografia.
L’autobiografia vale meno di un romanzo?
La risposta, ovviamente, è no: il valore intrinseco di ciò che leggiamo è dato dall’emozione che riesce a trasmetterci, a prescindere dalle motivazioni del lettore o dell’autore.
Fra i lettori di autobiografie possiamo trovare appassionati di storia, persone interessate a una particolare condizione dell’autore, o semplici lettori onnivori che lo considerano un genere come un altro. Mi trovo però a chiedermi in quanti possano essere spinti da un atteggiamento voyeuristico: fino a che punto siamo interessati a ficcare il naso nella vita degli altri quando scegliamo un libro autobiografico?