Non ci resta che ridere, dopo tanto attendere e sperare. Perché, in fondo, se c’è qualcosa che ci ha insegnato la pandemia è rivalutare le nostre priorità. E, tra queste, un autentico bisogno di allegria. Qualcun altro lo chiamerebbe resilienza, ma è un termine che va troppo di moda per essere considerato coerente oramai. Il tempo vissuto in quest’anno ci ricondiziona a una riflessione antica, che avevamo già ritrovato nel 2017 nel libro Storie di Matti di Arianna Porcelli Safonov. Una riflessione cinica e tenera sulla nostra epoca contemporanea che vorrebbe obbligarci al contenimento. Abbiamo intervistato l’autrice Arianna Porcelli Safonov proprio per ripercorrere i bisogni di questo momento che, paradossalmente, ci spingono al silenzio più che al suono, alla risata più che alla rassegnazione.
La caparbietà di chi crede in quello che fa
Irriverente, acuta e brillante artista di origine romana, Arianna Porcelli Safonov è autrice di libri apprezzati come Fottuta Campagna e Storie di matti. La conosciamo anche per il suo blog Madame Pipì e per “Rìding Tristocomici”. Un momento storico in cui il ruolo del lavoro terrorizza, ma in cui la volontà diventa la prerogativa del futuro. Arianna, tra gli altri, è un esempio di caparbietà e prontezza che ci infonde una serenità e una speranza di cui tutti abbiamo bisogno. Ci dimostra quanto la verità si trovi nella spontaneità, ed è per questo che Arianna Porcelli Safonov preferisce repertori di “monologhi tristissimi” alla risata forzata del cabaret. Abbiamo bisogno della sua comicità reale, più simile alla satira che alla leggerezza di intenti. La stessa verità che riconosciamo nel cinismo, nel ghigno intelligente della risata amara.
Siamo abituati a una comicità spettacolare, che sembra debba coprire il significato delle cose piuttosto che raccontarle. E invece è dal profondo sconforto, nella rappresentazione del reale che deriva un senso di accettazione, persino di sdrammatizzazione. In questo modo Arianna Porcelli Safonov introduce lo spettatore e il lettore nel suo pensiero. Una risata fuori campo che quasi evangelizza la realtà. Un’arte che deve far ridere per fare indignare, per raccontarci quello che non ci diciamo. E Arianna Porcelli Safonov, invece, ce lo dice così in questa nostra intervista.
L’intervista ad Arianna Porcelli Safonov
Quando si parla di solitudine spesso si hanno toni un po’ “malinconici”, a lei tuttavia non l’ha coinvolta pienamente. Nel suo libro riesce a parlarne con un po’ di distacco e simpatia pur facendo un’analisi vera e cruda. Cosa l’ha spinta a mollare tutto per partire nella zona dell’Oltrepò? Ha trovato quello che cercava?
Più che parlarne con distacco e simpatia, considero la solitudine una specie di virtù teologale, un elisir di bellezza, una condizione per salvarci dalla rovina di questo tempo; a me, la malinconia la trasmette la gente in fila ai punti scommessa o quelli che fanno le vasche al centro commerciale. Quando sono partita da Madrid per l’Appennino, l’idea non era di mollare tutto ma semplicemente di ritrovare le cose importanti: un contesto di vita semplice a discapito della febbre di consumo, una buona gastronomia, una natura potente che ricorda a tutti la miseria delle nostre attività rispetto a quelle degli agenti atmosferici. Più che trovare ciò che cercavo, ho trovato gli strumenti per filtrare tutto ciò che mi accade.
Qual è il vero messaggio dietro Fottuta Campagna?
Non tutti meritano di vivere e lavorare in campagna. Sopravvivono solo coloro che desiderano adattarsi anziché portare la città sulle colline e nei boschi, organizzare gli aperitivi con gli spritz dove esiste ancora il bianchetto è pura eresia.
Nel suo libro parla di pregiudizi creati dall’illusione che ci scaldano e ci rassicurano per molto tempo, ma a ognuno di essi corrisponde una disillusione devastante quanto miracolosa, è stato così anche per la vita in campagna? Si aspettava qualcosa di diverso o è stata come si aspettava?
Come accennato nella precedente risposta, Fottuta Campagna racconta la storia di chi si trasferisce in un luogo con la presunzione di poterne modificare i connotati a proprio piacimento o che, peggio, tale luogo sia accogliente ma la campagna vera (non il giardinetto del casale in Chianti, per intenderci) non è un luogo accogliente per chi arriva con l’auto decappottabile e il cestino del pic-nic. La natura incontaminata subisce la violenza di chi arriva dalla città col super-ego di aprire un’attività agricola secondo i canoni di ciò che piacerà ai visitatori urbani ed è per questo che ho imparato ad amare l’Appennino: un posto talmente impervio che si protegge da questa razzia già avvenuta in tante campagne vicine alla città. Questo aspetto l’ho imparato attraverso la purificazione che l’Appennino mi ha concessa! Una purificazione che a me è parsa spesso… fottuta.
È un momento in cui la figura della stand-up comedian sembra iniziare a prendere finalmente riconoscenza di ruolo. Lo abbiamo visto in maniera eclatante con Lol e con l’ultima copertina di Vanity Fair. Ma qual è la natura dietro questo mestiere? L’essenza del teatro comico, fuori dagli schemi televisivi.
L’essenza del teatro comico non si trova in TV, né sulle copertine ma, appunto, in teatro. Tutto ciò che passa attraverso il filtro della grande distribuzione subisce il sistema e lo asseconda. Non solo l’alimentazione e la moda ma anche il mestiere comico corre questo pericolo con l’aggravante che quest’ultimo ha bisogno di libertà d’espressione molto più che cibo e abbigliamento.
Ironia e verità: l’accoppiata pericolosa. È un modo di affrontare la realtà anche nella vita personale? Un filtro per conoscere le cose.
Più che un filtro, una traduzione. Oggi purtroppo non basta neanche più l’ironia per dire una verità evitando di essere uccisi, come scriveva Bill Withers. Sempre meno persone riescono a non indignarsi di fronte a una battuta, a non prenderla sul personale, a ricavarci una morale. La verità è da sempre pericolosa ma il vero pericolo è perdere l’esigenza di reperire verità e il proprio sense of humor.
Hai vissuto in giro per il mondo: Madrid, New York e sempre per sempre Roma. Qual è il fil rouge che hai ritrovato in ogni posto? La lezione che hai riconosciuto dappertutto.
Impossibile paragonare città così diverse. Mi spiace dire la banalità che Roma abbia tanto, tantissimo da imparare dalle altre grandi città: non ci sono scuse, non ci sono giustificazioni perché il problema è insito nei cittadini piuttosto che nella gestione metropolitana. Inoltre son tre città che ho abitato in periodi diversi ed età diverse della mia vita. Se però dovessi fare un piccolo Bignami di questi tre luoghi, sintetizzerei le lezioni così: New York: tutto ciò di cui hai bisogno è qui tranne te stesso. Madrid: tutto ciò che ti fa vivere bene è qui, se sai girarti dall’altra parte. Roma: tutto ciò di cui hai bisogno è qui, incluso te stesso; il punto è che è te stesso a rovinare la città.
Se lei ha scelto la campagna per “suicidarsi” allora perché non è rimasta in città?
Perché in città si resta vivi, anche se in palese decomposizione.
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