Alla base dello Tsundoku vi è il piacere di accumulare. Il principio è lo stesso di chi non sa arrestare una corsa sfrenata – e continua – agli ultimi articoli di tendenza. Solitamente si parla di shopping compulsivo facendo riferimento a maglie, gonne, bigiotteria.
Ognuno ha nell’armadio, nascosto da valanghe di indumenti, un capo che resta lì, in attesa, sospeso alla gruccia che si chiede “Come mai sono qui?”. Accumulare capi fashion o bizzarri, che andrebbero bene indosso solo a personaggi del calibro di Emily Cooper, è associato a eccessiva vanità e frivolezza. Chi invece accatasta volumi, cosa cela?
Tsundoku, ovvero “impilare cose, da leggere, per un po’”
La parola tsundoku deriva da tsunde, “impilare cose” e oku,“lasciare lì per un po’ di tempo“. Oku è diventato doku, cioè “lettura” che, unendosi con tsunde, ha dato origine a questo termine che sta cominciando a diventare familiare.
Quando per indicare un atteggiamento inconsapevole si conia un termine apposito, vuol dire che la cosa sta sfuggendo di mano. Soffrire di tsundoku potrebbe significare non essere mai paghi di ciò che si ha già. E che, osservando la propria libreria, composta da una buona percentuale di libri non ancora aperti, l’occhio cada proprio su quei pochi angoli rimasti vuoti.
Non è esattamente così. Ciò che sfugge al controllo non è il perdere di vista ciò che si ha, ma puntare a ottenere sempre nuovi stimoli. Sarà il male di questo secolo? È come se non ci bastasse mai nulla: non bastano i capi nell’armadio, non bastano gli amici su Facebook, non bastano i like su Instagram. E non bastano nemmeno i libri.
Accumulo non è collezionismo
Si potrebbe pensare che l’accumulo di libri consista in una sorta di collezionismo, la bibliomania. Libri come francobolli, o come oggetti di stile. Ma c’è una differenza sostanziale tra chi colleziona e chi accumula. Il primo sa che l’oggetto ripetuto serve ad arredare e a farsi contemplare. Il secondo, invece, arriva a dimenticarsi cosa ha comprato.
A chi non è mai capitato di comprare lo stesso libro due volte? L’eccezione che diventa regola sfocia nel dar vita a un accumulo ossessivo compulsivo di romanzi, saggi e fumetti con l’intento di leggerli, appena si avrà un po’ di tempo. Ma il tempo non arriva mai, e quando arriva lo si spende in altro. Perché, per quanto leggere sia un piacere, la routine quotidiana implica una serie di impegni che si fa fatica a portare a termine. Al punto che ciò che si è acquistato finisce nel dimenticatoio. Come alcuni numeri di telefono nella propria rubrica telefonica.
Tsundoku: il piacere dell’oggetto in sé
A volte ritornano, quei volumi acquistati in un mercatino di libri usati di una grande città. Oppure, quei romanzi rosa dei tempi dell’adolescenza. O, ancora, quei manuali universitari relativi a esami mai sostenuti, che vendere o regalare sarebbe parso una bestemmia. Hanno giaciuto tra le mensole per mesi, anni, lustri. Ma quando finalmente vengono aperti, sprigionano emozioni magiche. Perché i libri riescono a racchiudere e a conservare storie per decenni, senza che queste passino di moda.
E quando un libro viene letto, dopo tanto tempo, sembra quasi cambiare fisionomia. Lo si guarda e si pensa: “questa storia era qui dentro, e ha resistito, paziente, di venire ri-scoperta”. Il fatto che si sia trovato un termine per indicare l’accumulo, apparentemente nonsense, di libri, non intacca chi da anni li ha archiviati e stipati in ogni angolo della casa (ho visto scale adattate a libreria!).
Perché se è vero che gli incontri con le persone che si è destinati a incontrare avvengono solo quando è il momento giusto, potrebbe essere che alcuni libri scivolino fuori dalle mensole nel momento in cui è più indicato leggerli.