Aaron Gonzalez è fotografo, pittore, scultore. Artista espressivo e sperimentale. Le sue creazioni riescono ad acquistare tridimensionalità anche quando non è nella loro natura. Le sue opere sono a volte accompagnate da pensieri, ricordi, percezioni appuntate.
Aaron Gonzalez si definisce “un alchimista empatico”: si esprime attraverso varie forme comunicative, riuscendo a divenire parte stessa delle sue opere. Su Aaron Gonzalez e sulla sua arte ci sarebbe molto da dire, ma nessuno lo può fare meglio di lui. La prima domanda è pensata proprio per risolvere questo dilemma.
Chi è Aaron Gonzalez?
Questa domanda è un po’ una mia nemesi e un po’ una tela immacolata. Ogni volta la risposta cambia e ogni volta è difficile.
Sto arrivando pian piano ad accettare (o forse incarnare) il mio nomen omen.
Quando i miei genitori hanno scelto di chiamarmi Aaron, sapevano che in ebraico significa “contenitore della saggezza”, ma non credo che sapessero che Aron haQodesh è l’armadio che custodisce la Torah.
Ora, per definirmi userei molti termini, ma saggio non è tra questi, quindi nella mia ricerca del Sé, ho preso in considerazione solo l’essere un contenitore di idee, identità, emozioni, mondi.
Tutto ciò che contengo è reso accessibile attraverso la mia espressione artistica ed essendo tutto molto complesso, altresì lo diventa l’espressione stessa. Ho seri problemi con la comunicazione e questo mi porta a non usare un solo metodo o averne uno preferito; posso elaborare uno stesso concetto con delle foto, con una scultura, con una performance, con un audiovisivo e via discorrendo, senza pormi mai un limite. Ho la fortuna di apprendere le cose cinesteticamente, quindi più faccio, più imparo e imparo rapidamente perché faccio tantissime cose.

Una personalità complessa
Tu riesci a fonderti con le opere che crei. Nelle tue esposizioni, una delle “opere” sei tu. Cosa ti rende parte integrante della tua arte, come ti intersechi con essa?
Sono perfettamente conscio del fatto che capire a fondo quel che faccio sia complesso e che richieda la mia presenza per dare input che in creazione non sono riuscito a integrare. Questo mi rende parte integrante delle mie esposizioni, una sorta di didascalia senziente.
Inoltre, ho un rapporto viscerale con le mie creazioni. Quando sono in esposizione pulsano, prendono vita, evolvono attraverso le interpretazioni altrui, assumono nuove forme e sfaccettature perché, come me, sono creature fortemente empatiche.
Oltre un certo punto, non so se sia più corretto dire che io sono a mia volta un’opera o che sono le mie opere ad essere come me.

Aaron Gonzalez e l’arte come liberazione dal dolore
In un’intervista hai affermato che “senza ferite l’anima non si evolve”. Le tue opere sono comunicative ed enigmatiche, in alcune traspare sofferenza e inquietudine. È ciò che avviene, in qualche modo, con “Dorian” (autoritratto dell’artista ispirato al romanzo di Oscar Wilde). Riesci ad affrancarti dal dolore e dalla malinconia, trasferendo certe emozioni sulle tue creazioni? E, se sì, come?
Affrancarmi da angoscia e malinconia credo sia quasi impossibile, magari può esistere qualche evento transitorio, piccoli spiragli di luce.
La mia arte mi aiuta ma in modo sottile: trasferendo il mio dolore nell’arte, alle mie creature, le rendo sofferenti e forse arrivo a sentirmi un po’ meno solo.
Da questo punto di vista, sono un po’ un alchimista. La mia ricerca è fondamentalmente, tramutare ciò che rende pesante la mia anima, il mio piombo, in oro – inteso spiritualmente come attimi di pace più che più banalmente come vil danaro, che utilizzo per sopravvivere e per potermi permettere di continuare a creare mondi da mostrare alle persone.
Tutto questo discorso è riassunto nel titolo di una delle mie opere: Fate will fuck you, so try to make it pleasant (Il destino ti fotterà, quindi cerca di renderlo piacevole).
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho in programma diverse cose, di alcune posso parlare, altre non sono ancora mature.
Ho ricevuto un invito ufficiale per esporre a Casa Manno (museo sito ad Alghero, n.d.r.). Appena le norme anti covid lo permetteranno, e ho selezionato Drag me to her, il mio solo progetto che parla della tradizione sarda, a modo mio.
Sto lavorando praticamente ogni giorno a Empathy, una collezione di sculture raffiguranti dei cuori anatomici, ognuno rappresentativo di uno stato emotivo, ma ancora non so quando e dove esporre. E’ qualcosa a cui tengo particolarmente, quindi mi dispiacerebbe farla uscire in modo poco consono.
A breve uscirà un mio videoclip musicale per Gionta, un giovane talento locale.
Vorrei pubblicare il mio primo libro fotografico Sin Aesthetic (Estetica del Peccato) ma per ora attendo di capire se esiste un editore talmente folle da credere nel progetto o se dovrò pubblicarlo da me. Nel frattempo produco materiale.
Per il quarto progetto, non posso dire altro oltre a un nome: Leopold von Sacher Masoch.
Se sembra tanto, posso aggiungere che è un terzo di quel che bolle in pentola, danni collaterali del Covid.

La storia di Aaron Gonzalez
Nato ad Alghero nel 1985, Aaron Gonzalez cerca da subito un modo per comunicare, studiando recitazione teatrale e riuscendo nel 1992 a fare un tournée di tre mesi con la compagnia Teatro di Sardegna sulla produzione Casa di Bambola di Henrik Ibsen.
Accantonata quella forma espressiva, rimane dormiente fino al 2010, anno nel quale inizia a produrre per gioco piccoli cortometraggi dei quali cura ogni aspetto produttivo ed è spesso interprete.
Nel 2012 inizia a prendere sul serio quelli che fino a quel momento erano stati poco più che passatempi: fotografia e illustrazione.
Nel 2013, grazie ad una fortunata collaborazione con la Grage Pictures, una piccola compagnia di videomaker tarantini, consegue il premio del Los Angeles Web Festival per i migliori effetti visivi con la serie A.Z.A.S. – All zombies are stupid.
Dal 2015 inizia a partecipare a esposizioni collettive d’arte, con diverse personali interdisciplinari, fino a essere invitato a portarne una a Torino, curata da Ivan Fassio.
Nel 2018, quasi per caso, torna in teatro in veste di fotografo di scena per Assassina di Federico Pacifici, avviando una collaborazione che dura ancora oggi con la compagnia algherese Teatro d’Inverno.
Ad oggi, continua a creare e cercare sinergie tra diverse forme espressive.
Il suo profilo su Instagram offre una panoramica delle sua arte.
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