A 22 anni dalla morte la sua essenza è ancora viva e attuale nelle sue parole e nelle nostre emozioni
Fabrizio De André è nato il 18 febbraio 1940, secondogenito di una famiglia genovese. Le sue canzoni sono considerate vere poesie tanto da essere entrate a pieno diritto in varie antologie. Il suo pensiero cristallino si concentra perfettamente nei versi de La guerra di Piero. Di lui ricordiamo l’avversione per ogni conflitto armato, la decisione di dare fiducia illimitata alla natura umana, il rifiuto di qualsiasi religione a causa del potere che esercita sui più credenti, l’accettazione di ogni persona come suo pari, fosse egli un re o l’ultimo degli appestati, ognuno con le proprie debolezze e virtù, magnificando tutto ciò che rende unico il genere umano.
La capacità di cogliere l’essenza dell’attimo più significativo in ogni racconto gli ha permesso di creare delle vere e proprie perle che, come tali, rimangono intatte nel tempo. La loro potenza espressiva, anziché scemare, si moltiplica nei nuovi eventi che ci apprestiamo a vivere ogni giorno.
La guerra di Piero (1966) di Fabrizio De André
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma son mille papaveri rossi
Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente
Così dicevi ed era d’inverno
E come gli altri verso l’inferno
Te ne vai triste come chi deve
Il vento ti sputa in faccia la neve
Fermati Piero, fermati adesso
Lascia che il vento ti passi un po’ addosso
Dei morti in battaglia ti porti la voce
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce
Ma tu no lo udisti e il tempo passava
Con le stagioni a passo di giava
Ed arrivasti a varcar la frontiera
In un bel giorno di primavera
E mentre marciavi con l’anima in spalle
Vedesti un uomo in fondo alla valle
Che aveva il tuo stesso identico umore
Ma la divisa di un altro colore
Sparagli Piero, sparagli ora
E dopo un colpo sparagli ancora
Fino a che tu non lo vedrai esangue
Cadere in terra a coprire il suo sangue
E se gli sparo in fronte o nel cuore
Soltanto il tempo avrà per morire
Ma il tempo a me resterà per vedere
Vedere gli occhi di un uomo che muore
E mentre gli usi questa premura
Quello si volta, ti vede e ha paura
Ed imbracciata l’artiglieria
Non ti ricambia la cortesia
Cadesti in terra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che il tempo non ti sarebbe bastato
A chiedere perdono per ogni peccato
Cadesti interra senza un lamento
E ti accorgesti in un solo momento
Che la tua vita finiva quel giorno
E non ci sarebbe stato un ritorno
Ninetta mia, a crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio
Ninetta bella, dritto all’inferno
Avrei preferito andarci in inverno
E mentre il grano ti stava a sentire
Dentro alle mani stringevi il fucile
Dentro alla bocca stringevi parole
Troppo gelate per sciogliersi al sole
Dormi sepolto in un campo di grano
Non è la rosa, non è il tulipano
Che ti fan veglia dall’ombra dei fossi
Ma sono mille papaveri rossi
L’impatto emotivo così straziante non viene minimamente scalfito dalle rime, perfettamente accordate fra loro senza il minimo sentore di forzatura. In questi versi troviamo la forza della sua fede nell’uomo, che non viene meno neanche se smentita dai fatti. C’è il tormento dell’anima dilaniata dalla guerra, perché chi è costretto a combattere è la prima vittima di qualsiasi conflitto.
In questo sta la magnificenza di un autore che innalza gli ultimi e gli emarginati, protagonisti della vita vera che lui tanto ha amato.
“Da un palcoscenico non si parla, non si dice: da un palcoscenico si può solo tentare il gioco effimero dell’incantesimo” Fabrizio De André