Considerato uno dei nomi più interessanti tra i nuovi scrittori in Sardegna, Giulio Neri reputa ogni romanzo “un’ipotesi filosofica”
Il ventinovesimo compleanno di Carmelo Hayez giungeva nel pieno di una Grande Depressione, e al culmine di un male oscuro personale, dopo l’ennesima notte d’insonnia in cameretta. Verso l’alba udì bussare e la voce rotta di suo babbo: – Carmelo, è morto Maradona! Si infilò alla spiccia i calzoncini della Juventus e andò alla porta: – Maradona? Il padre, in mutande, piangendo sfrenato quasi urlò: – Tonino, sì! – Poi con pudore residuo si coprì la faccia, tutto sussulti di spalle pelose. Carmelo lo seguì per il corridoio fino in cucina, dove il ventilatore a palla smuoveva i tovaglioli di carta fra i resti della cena. – Dio, ma com’è successo? – S’è impiccato! Ha legato la fune al termosifone e giù… dalla finestra. Le peripezie sentimentali di Tonino Maradona, un metro e cinquantasette di estro calcistico, avevano fornito argomenti ai più misogini della squadra: sposatosi giovanissimo, la moglie di un metro e cinquantadue si era scoperta lesbica e lo aveva piantato. 11 Lui, all’antica, aveva impiegato tre anni a riprendersi e a trovare un’altra donna; ma anche questa, un metro e quarantanove, lo aveva lasciato presto. Maradona non si era dato per vinto scendendo ancora, a un metro e quarantasei. Scaricato per la terza volta, aveva toccato il fondo. Carmelo si era sorbito i riepiloghi avvelenati di Tonino anche pochi giorni prima negli spogliatoi di Terramaìni, e in macchina, dandogli uno strappo a casa. Immaginò la palazzina di Via dei Carbonari e il piccolo corpo spenzolante tra i panni stesi. Riuscì solo a dire: – Poveretto, era un suicidio annunciato. Suo padre trasalì: – Ora lo capisci perché ci preoccupiamo per te? – Babbo, io non potrei mai. – E perché no? Sei depresso. – Ma per piacere. – Tua madre è a pezzi… La donna, frastornata, entrò in cucina; guardò il marito che si soffiava il naso: – Ninì, quel ventilatore… Te la sei buscata, finalmente! – Non è il ventilatore, – singhiozzò il capofamiglia, – è morto Maradona. – Chi? – Maradona… Tonino. Ah, non voglio più parlarne! – Sì, – mormorò Carmelo, – è uno strazio.
(Portoro, Il Maestrale, p. 11/12)
Giulio Neri, autore cagliaritano, esordisce nel 2016 con il romanzo Carta forbice sasso. Memorie senza raccordo (Asterios). Nel 2018 pubblica A tie solu bramo (Il Maestrale) e nel 2020 Portoro (Il Maestrale). Scrittore dal fascino magnetico, è capace come pochi di sviscerare l’essenza dell’animo umano, solcando la sofferenza che contraddistingue i personaggi dei suoi romanzi.
La scrittura per alcuni è una terapia, per altri un’esigenza, per altri ancora un modo di dare sfogo alla fantasia e creare mondi nuovi. E per te?
Di sicuro, è una modalità di riordino. Spesso non si tratta nemmeno di offrire delle risposte, ma di formulare – attraverso la narrazione – una serie di domande. C’è un aspetto terapeutico, perché scrivere in alcuni soggetti regge l’intera impalcatura e penso davvero che la letteratura abbia strane affinità con la carpenteria pesante. Talvolta – è vero – questo non basta, l’edificio crolla, ma resta il fatto che per anni, per decenni, abbia tenuto, resistito a intemperie e terremoti. Questa è già di per sé una vittoria. C’è anche la necessità di esprimere una specie di “accumulo” di vita e metterlo a sistema. Ogni romanzo è un’ipotesi filosofica, una rappresentazione dell’esistenza umana, dei suoi trionfi e dei suoi fallimenti. Oggettivare nero su bianco è una compensazione benefica. Ci aiuta a capire, a interrogarci; a focalizzare l’attenzione sui punti critici: perché ci innamoriamo? Perché aderiamo a un’ideologia piuttosto che un’altra? Perché commettiamo sempre lo stesso errore? Non tutto ha una risposta, non mi stancherò mai di ripeterlo, ma analizzare i processi di vita, o anche solo vederli dall’esterno, aiuta parecchio. Ci fa sentire meno soli. E un po’ meno stupidi, forse.
Il tuo libro si intitola Portoro, un tipo di marmo pregiato. Come mai questo titolo?
È un marmo di forte impatto visivo, nero e con venature perlopiù dorate. In passato lo si impiegava per la pavimentazione degli atrii nei palazzi signorili. Come antiquario, ho avuto modo di apprezzarlo in certi mobili art déco. Mi ha spessissimo offerto suggestioni spaziali (penso a certe foto della Via Lattea) o pittoriche (le grandi tele di Pollock e la tecnica del dripping). Il romanzo, va detto, si apre a una sorta di fenomenologia della depressione, e uno dei personaggi sceglie il portoro per realizzare la propria lapide funeraria… Quello stesso marmo, più avanti, rivestirà l’ambiente di una scena chiave, amorosa, e forse risolutiva. È quindi simbolo di epilogo, di morte, che diventa però simbolo di inizio, di vita. Gli si potrebbe attribuire una funzione di ambivalenza, ma credo sia più onesto parlare di ambiguità, considerati i risvolti morali presenti nella storia e nella gran parte dei personaggi. È un’ambiguità che permea il romanzo e mi sembrava opportuno dichiararlo – si fa per dire – già nel titolo. E poi “Portoro” è stato a lungo il mio pseudonimo in rete: mi piaceva questa identificazione con il passato, con la mia storia personale, anche se il libro non è autobiografico.
Nei tuoi due ultimi romanzi hai spaziato con maestria nei meandri della psicologia umana, prima con Clelia Boero, protagonista de A tie solu bramu, e ora con Carmelo Hayez, protagonista di Portoro, uomo logorato da una forte sofferenza. Come avviene questa tua esplorazione dell’animo umano?
Come hai notato, avviene soprattutto in riferimento al dolore, al modo di affrontare quei drammi di vita che, prima o poi, coinvolgono tutti. Costruisco i personaggi in rapporto alla loro reazione a un grande problema o a una perdurante lacerazione. È la sofferenza a caratterizzarci come individui, a darci una specificità di tratto. Anche nei soggetti più ironici si può risalire a una matrice drammatica, se non tragica. Questo in parte spiega anche la mia inclinazione, come autore, alla sfumatura grottesca o a un certo umorismo “nero”. L’aspetto di riordino, rispetto alla mia vita privata, è essenziale. Scrivere permette infatti di rielaborare, sezionare, analizzare degli stati emotivi. Romanzare, deformare, uscire dalla propria vita per costruire quella dei personaggi deve essere sempre un modo per entrarci di più, per tentare di capire e non soccombere al disastro.