Una storia d’amore controversa nata nella aule dell’università di Urbino, una passione che diventa ossessione e si consuma nella violenza più cruda: Un modo semplice di Daniela Piras racconta una vicenda in cui lo stalking si fa sempre più pressante, fino a sfociare nella brutalità fisica. Questa tematica, purtroppo molto attuale, viene narrata dall’autrice sia dal punto di vista della vittima che da quello del carnefice, con l’obiettivo di fornire una visione il più oggettiva possibile dei fatti accaduti.
L’autrice, Daniela Piras, vive in Sardegna e, oltre ad essere una scrittrice, è anche editor e giornalista pubblicista. Scrive racconti e poesie fin da bambina e ha pubblicato nel 2011 la raccolta di racconti e poesie Parole sugli alberi, nel 2013 il romanzo Village, nel 2015 la raccolta di racconti Crash, Marco Del Buccia Editore. Per Talos Edizioni ha già pubblicato nel 2017 Leo, che racconta il fenomeno degli hikikomori.
Abbiamo fatto qualche domanda a Daniela per saperne di più sul suo interessante romanzo.

Daniela, nelle tue pagine, oltre a sviscerare una vera e propria analisi del trauma subito dalla protagonista della storia, hai descritto in maniera particolareggiata anche la situazione vissuta dal suo carnefice. Come sei riuscita ad immedesimarti prima in uno e poi nell’altro personaggio? Qual è stata la maggiore difficoltà che hai incontrato nel dare voce a due personaggi in conflitto tra di loro?
L’immedesimazione è stata piuttosto sofferta. Scrivere il diario di Flavia (in teoria sarebbe dovuta essere la prova più semplice), mi ha portato ad avere diversi momenti di blocco, poiché in certi momenti sembrava che il malessere oltrepassasse le parole e si materializzasse. Ho cercato di tenere una distanza ideale tra me e il personaggio e di far collimare alcuni aspetti universali della trama, per rendere la narrazione il più fedele possibile alla realtà.
Per quanto riguarda l’altro personaggio, Manuel, ho provato a giocare con quelli che secondo me potevano essere i pensieri più plausibili di un ragazzo giovane che viene a trovarsi a fronteggiare qualcosa di molto più grande di lui. Entrambi i personaggi hanno delle immaturità dovute all’età e all’inesperienza, è stato un po’ come tornare indietro agli anni dell’università, al modo in cui si vive quando si ha la sensazione di avere tutto il potere nelle proprie mani.
La maggiore difficoltà è stata quella di dover raccontare due storie parallelamente, senza una voce fuori campo che facesse da arbitro e che sintetizzasse la storia. I due diari dovevano essere, per forza di cose, in grado di stare in piedi autonomamente.
Ti sei ispirata a qualche fatto di cronaca in particolare per raccontare la vicenda di Flavia e Manuel?
All’inizio della stesura no, ma man mano che la storia prendeva corpo ho pensato a una vicenda molto triste che è successa in Sardegna qualche anno fa, e che mi è rimasta particolarmente impressa. Il protagonista è morto in un incendio, in una situazione che ancora oggi presenta molte ombre da dissipare, mentre la protagonista femminile è rimasta gravemente sfigurata.
Si tratta di un episodio di cronaca da cui ho preso spunto in minima parte per raccontare il personaggio di Manuel, un ragazzo molto legato alla madre e che veniva descritto da amici e familiari come “il classico bravo ragazzo”. Tra i due è stato quello che non ha avuto modo di raccontare la sua versione: questa cosa mi aveva fatto riflettere molto.

Un modo semplice vanta di una prefazione importante, quella della dottoressa Cinzia Mammoliti: criminologa, consulente, ricercatrice e docente in ambito criminologico per Forze dell’Ordine, Ordine degli Avvocati e degli Psicologi, operatori di Centri Antiviolenza e scuole. Ti sei avvalsa della sua consulenza anche per la stesura del romanzo?
Ho visto la prima volta la dottoressa Mammoliti a un convegno a cui ero andata per scrivere un pezzo per una testata giornalistica. Una volta lì mi sono trovata a mettere da parte il motivo professionale, poiché Cinzia è riuscita a fare vibrare alcune mie personalissime corde. Sentire parlare in maniera così chiara e diretta di temi come la violenza psicologica è stato illuminante. All’epoca avevo già iniziato a scrivere il romanzo, e ne ho approfittato per fare delle domande (rigorosamente in forma anonima, tramite bigliettini) riguardo quelle che potevano essere determinate dinamiche della manipolazione nei rapporti di coppia. Volevo essere sicura che alcune idee che avevo in mente riguardassero fatti possibili.
È stato come se i miei personaggi fossero lì, e chiedessero alcune spiegazioni tramite me. In seguito ho ritenuto che la dottoressa fosse la persona più idonea a scrivere la prefazione del romanzo, e le ho chiesto se fosse disponibile in tal senso: fortunatamente ha accettato con entusiasmo. Una consulenza vera e propria non l’ho avuta, però mi sono confrontata con una psicologa per verificare se la trama potesse stare in piedi e non fosse troppo fantasiosa.
La musica è un elemento ridondante all’interno della tua narrazione. Pure il titolo del libro è ripreso da quello una canzone. Vuoi raccontarci qualcosa di più a riguardo?
Ho provato a stilare una colonna sonora che facesse da accompagnamento nelle varie fasi della storia. Ogni brano è stato scelto con attenzione quasi maniacale, e fa riferimento a stati d’animo specifici. Per esempio, il brano dei Bauhaus è molto cupo ed è servito ad interpretare magnificamente ciò che volevo raccontare: inquietudine, desolazione, paura e abbandono. Il titolo del libro è tratto da Trovami un modo semplice per uscirne dei Verdena, è una scelta che mi ha dato la possibilità di raccontare una storia non solo con le parole, ma con musiche che per me hanno un forte significato.
È interessante come il libro si possa anche, in un certo senso, “ascoltare”, non solo leggere. Questa scelta è stata apprezzata, l’idea è piaciuta: si è capito che ho voluto aggiungere una seconda dimensione alla lettura classica. Sono due arti che si fondono e si intersecano.

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Clara Zennaro